Svizzera: la frontiera che mi ha ridato speranza
Scorre sereno un pomeriggio come tanti altri a casa di mia nonna. Prepariamo un tè, è l’ora della merenda, lei prende i suoi buonissimi biscotti fatti in casa. Ci sediamo al tavolo e cominciamo a parlare. Le chiedo: «Nonna, ti andrebbe di raccontarmi di quando sei andata in Svizzera?» . Lei mi risponde: «Cosa vuoi che ti racconto?», «tutto ciò che hai voglia di raccontarmi, noni». Lei tace per un istante, ora il suo sguardo è diverso, posa la tazza che teneva tra le mani, fa un sospiro e dice: «Da dove cominciare…»
Il mio nome è Antonietta, ho settantacinque anni e nella vita non mi sono mai arresa.
Sono cresciuta al Sud, a Orsara precisamente, un piccolo paese nel Nord della Puglia, in una famiglia di braccianti. Io, la più piccola di cinque sorelle, a soli cinque anni mi guadagnavo da mangiare insieme alla mia famiglia nei campi. Ogni mattina all’alba percorrevamo alcuni chilometri a piedi per raggiungere il terreno, ma ciò che producevamo non bastava a sfamarci. Non c’era nessuno stipendio, avevamo solamente la campagna, ma non era sufficiente per mangiare tutti e sette.
Ogni mattina, alle quattro, andavamo a piedi fino al nostro terreno, con la roba addosso perché non avevamo le bestie. Avevamo solo un vecchio asino che poi è morto. Dovevamo infatti far venire altri ad arare il nostro terreno, con le loro bestie e poi noi, per pagare il conto, non avendo soldi, andavamo per cinque giorni a zappare le loro terre per ripagarli. Non puoi immaginare cosa significa zappare le fave, mettere il granoturco a mano con un piccolo manico di legno, togliere le erbacce da questi terreni enormi, raccogliere le olive e la frutta e, soprattutto, lavorare per nulla… Ricordo che, un giorno, volevo delle scarpe nuove perché le mie erano vecchie e mi stringevano i piedi, ma mia madre mi ha picchiato perché lei, i soldi per comprarmele, non li aveva. Avevo solo un paio di scarpe di cuoio, fatte dal calzolaio del paese, che usavo ogni giorno per lavorare nei campi, poi il sabato e la domenica le pulivamo con la sugna e le indossavamo anche per andare in chiesa. Giù non c’era niente, si mangiavano solo frutta e granoturco. Tutto ciò che avevamo in campagna. L’acqua andavamo a prenderla con un secchio che portavamo sulla testa. Non avevamo nemmeno il gabinetto, facevamo i nostri bisogni dentro una cesta di paglia, e andavamo poi a buttarli dentro un apposito canale comune. Era molto triste, dalla disperazione me ne andai. Ogni otto giorni mia madre finiva la farina e si disperava per come andare a comprarne dell’altra per fare il pane per mangiare. Il nostro grano non bastava. Inoltre, eravamo costretti a vendere tante cose per racimolare qualcosa. Quando si ammazzava il maiale, il prosciutto lo vendevamo, le uova delle galline le vendevamo per i fiammiferi. Tutto era razionato. Quello che si mangiava era un po’ di pane con le olive, a volte un pezzetto di pancetta. Anzi, noi eravamo ancora fortunati perché avevamo un terreno. Quando tornavamo dal forno dovevamo stare attenti perché le persone ti rubavano il pane di mano. Non era affatto facile. Perlomeno noi avevamo una casa, un vecchio asino, delle galline e alcuni conigli.
Solo la zia dell’America ci mandava, a volte, dei pacchi che contenevano scarpe, vestiti e altre cose per vivere. Lei era la sorella di mio padre, era emigrata a Philadelphia. Quella donna ha avuto una brutta vita. Quella poverina, un disgraziato del paese ha voluto portarsela via da casa sua con la forza, e lei si ammalò di dolore. A quei tempi le donne erano solo delle schiave, gli uomini se ne fregavano di loro, le usavano solo per prolificare, ma poi non si interessavano più dei figli.
Mio padre, con l’aiuto di alcuni suoi cugini, è andato a riprendersela con il fucile. Lei non si era mai fatta toccare, non si era fatta fare niente, e nemmeno se lo ero sposato! Il problema era, però, che una volta andata via di casa con un uomo, nessuno se la sarebbe più sposata al paese. Non era come adesso, che le persone possono dormire insieme anche se non sono sposate. In seguito a quell’episodio, intorno alla fine degli anni 1930, arrivò un lontano parente dall’America, un vedovo con cinque figli che le propose di sposarsi con lui. Lei accettò, pur di andare via da Orsara. Partì in nave insieme a lui e dopo ebbero ancora due figli.
Mio padre, da bambino, stava bene economicamente, ma i suoi genitori morirono molto giovani. Li uccise il colera e furono portati al lazzaretto del paese. La mamma morì a soli trentasette anni di dolore per la morte del marito, o almeno così mi raccontarono. Erano quattro figli, il più piccolo aveva due anni e il più grande, mio padre, ne aveva solo sette di anni quando lei morì. Gli zii li adottarono, si impossessarono di tutti i loro beni, due case e alcuni terreni che i genitori gli aveva lasciato. Avevano anche un tesoro, a detta di mio padre, ma i briganti glielo rubarono, compresa la biancheria.
La mia vita al paese proseguiva sempre allo stesso modo fino al compimento dei miei diciotto anni, finché un giorno giunse la notizia che una delle mie sorelle, la seconda, la quale era partita per l’Australia qualche tempo prima, era venuta a mancare. Nel novembre del 1959, a soli ventiquattro anni, morì di parto. La bambina che portava in grembo era di sei chili e durante il parto, senza taglio cesareo, le venne un infarto che la stroncò. Morì prima la bambina per soffocamento e poi anche lei. In Australia, per mia sorella era il paradiso, al paese aveva lavorato come una schiava, ma morì prima di godersi qualsiasi cosa.
Per questa ragione, due anni fa, ho voluto andare a tutti i costi in Australia, per vedere almeno dove fosse seppellita. Allora ci volevano quaranta giorni di nave e non c’erano nemmeno le possibilità. Era partita per l’Australia solo dieci mesi prima, per raggiungere il fidanzato che aveva conosciuto al paese, Gerardo, che era partito poco prima di lei e che là aveva trovato un lavoro.
Nel 1960, un anno dopo la morte di mia sorella Michelina, e vedendo che al paese non c’era nessuna speranza, ma solo tanta miseria, presi la decisione di andarmene.
Lo decisi di mia spontanea volontà di andare in Svizzera. Ad Orsara non riuscivo più a vivere in quella condizione di estrema povertà, non c’erano i soldi per poter comprare nulla. Così, un giorno, dissi «Basta! Mamma, Papà, io me ne vado!».
Per mia fortuna, uno zio di Michele, il mio attuale marito che avrei poi conosciuto in seguito, mi fece ottenere un contratto di lavoro e così lo raggiunsi a Zurigo, dove lui lavorava già da qualche tempo. Senza contratto, infatti, non avrei mai potuto partire in quanto i controlli degli emigranti all’ingresso della Svizzera erano molto restrittivi.
Così, a diciannove anni, sono partita per Zurigo, con questo mio zio con il quale però non ebbi mai veramente un rapporto, se non per il viaggio in treno che facemmo insieme. Il primo impatto è stato parecchio triste, è stata dura. Non conoscevo la lingua, mi sentivo sola, sola. Avevo due cose, quelle poche cose che possedevo e che avevo portato con me dentro una valigia di cartone. Appena varcata la frontiera siamo stati sottoposti a molteplici controlli, ma poiché avevamo un contratto di lavoro regolare non avemmo alcun problema.
Non appena scesi dal treno, lo zio mi accompagnò presso questa mensa dove avrei dovuto cominciare a lavorare il giorno seguente. Non ricordo più che giorno fosse, era una sera di febbraio, ricordo solo che mi avevano assegnato una camera nella quale dormire, all’interno della quale la padrona mi rinchiuse a chiave. Io non capivo cosa dicesse e nemmeno sapevo che cosa mi aspettasse.
La mattina seguente, cominciai a lavorare. Per prima cosa mi misero a pelare le patate con delle macchine simili a quelle con cui, oggi, si puliscono le cozze. Ricordo che era una stanza piena di queste macchine e che, dopo la fine del servizio, andavano pulite tutte. C’erano dei buchini dai quali bisogna togliere i residui di patata con il coltello affinché fossero puliti e pronti per il servizio successivo. La pulizia era molto importante, ogni lavoratore indossava una divisa e un grembiule bianco.
Dopo qualche tempo, una mattina, mi cambiarono la mansione e dalla pelatura delle patate passai alla cassa e alla preparazione delle colazioni. Il mio compito era di servire chi veniva a prendersi da mangiare alla mensa. Rimasi a lavorare per un anno e otto mesi, imparai bene il mestiere e cominciavo a usare bene il tedesco.
Anche i miei pasti settimanali li facevo alla mensa. Non era brutto posto, ma il cibo era diverso. C’erano la purea, l’insalata condita con una salsina, wurstel… Io però mi adattai e mangiavo comunque ogni cosa. Certo, per me era tutto nuovo, io non avevo mangiato niente del genere. Mangiavo insieme ai miei colleghi, ma nessuno parlava italiano quindi ho dovuto sbrogliarmi con il tedesco. Nemmeno lo zio, che a volte vedevo, parlava tedesco e così, per cercare di farmi capire iniziai ad ascoltare e dopo un po’ qualcosa lo imparai. La mia famiglia mi mancava, ma io lavoravo, non ci pensavo, e mi importava solo dei soldi. Si lavorava bene e lo stipendio era molto buono, prendevo intorno ai centocinquanta franchi, che equivalevano a circa duecentomila lire. Erano davvero molti soldi. E tutto ciò che guadagnavo lo mettevo da parte. Il fine settimana, mi venivano dati cinque franchi perché la mensa era chiusa e quei soldi sarebbero dovuti servire per mangiare altrove, ma io cercavo comunque di risparmiarli il più possibile. Ricordo che avevo bisogno di sistemare alcuni denti e dopo qualche tempo sono riuscita a farmi piombare a Zurigo da un bravo dentista, per quel lavoro pagai ben centosettantacinque franchi, più di uno stipendio, ma dopo sessant’anni ne ho ancora uno di quei denti.
Trascorsi quasi due anni decisi di cambiare lavoro, andai presso la casa di una facoltosa famiglia di Zurigo, perché avevo sentito che lo stipendio ero molto alto rispetto alla mensa in cui lavoravo prima. Mi misero però in un sottotetto a fare la serva. Era un posto buio, brutto. Avevo un tappeto con dei vermi sotto, non era un posto molto bello. Loro suonavano la campanella e io dovevo correre per servirli. Rimasi in quella casa per quaranta giorni e poi, dato che il lavoro non mi piaceva e che era molto semplice, decisi di andare via.
Trovai un impiego come operaia presso una fabbrica, dove lo stipendio era anche leggermente più alto di quello che io avevo guadagnato fino a quel momento. Dovetti anche trovarmi una stanza, la quale però era molto distante dall’azienda, ma per risparmiare quei cinquanta franchi del tram, mi recavo a lavoro a piedi. In camera dovevo cucinarmi, avevo un piccolo mobile con un fornetto sopra e cercavo di non sporcare nulla. Ero e sono sempre stata una persona ordinata e pulita, nonostante la vita che facevo prima di andare in Svizzera. Andavo in bagno quando i padroni non erano in casa e cercavo di essere il meno rumorosa possibile. La mia presenza presso questa camera era stata segnalata agli enti locali, affinché lo stato avesse sotto controllo i giorni di permanenza della persona presso lo stato e che pagasse da subito le tasse dovute. La situazione era totalmente diversa dall’Italia dove ognuno poteva fare più o meno tutto ciò che voleva e questo genere di controlli non esistevano. Là, persino quando eri ammalato veniva il medico a controllare che fosse vero, ed era il medico a decidere quanti giorni potevi rimanere a casa.
I primi tempi mi misero a lavorare a cottimo, l’ambiente era però molto sporco. Si lavorava agli avvolgibili con certi macchinari che sembravano ricoperti di un materiale nero e sporco simile al catrame. Dopo qualche tempo mi spostarono di reparto e fui messa ad avvolgere le bobine di rame nella carta. Lì sono rimasta per nove mesi e quella fu la mia ultima esperienza lavorativa in Svizzera. Il mio stipendio era molto buono e mi feci anche delle amiche che, quando tornai in Italia, mi fecero ognuna un regalo. Conservo ancora un asciugamano che mi regalarono ed anche una caraffa. Là i meridionali li chiamavano terun, ma io non ebbi mai problemi. Con me furono sempre tutti gentili coloro che incontrai.
A Zurigo c’era anche una comunità di paesani, e qualche volta, la domenica, dopo essere andati a messa, mangiavamo tutti insieme. L’unica cosa è che loro erano valdesi, mentre io, invece, ero cattolica, ma non ho mai detto nulla. Tanti di loro non tornarono più in Italia, rimasero là, alcuni li ho ancora incontrati qualche tempo fa, altri invece sono morti.
La mia partenza, sebbene sia stata difficile perché dovetti lasciare la mia famiglia, fu per me una sorta di rinascita. La Svizzera è stata la mia America. Era dura ma conobbi un mondo nuovo, c’erano molte cose che io non avevo mai visto, case di lusso, persino il tram. Noi, giù, non avevamo niente, per me era un paradiso. Potevo andare al mercato, e comprare delle fettine di carne. In Puglia, non avevo mai nemmeno lasciato il paese, non ero neanche mai stata a Foggia.
A Zurigo mi adattai fin da subito. Imparai anche piuttosto bene il tedesco, invece al paese non ebbi nemmeno la possibilità di studiare. Io ero molto brava a scuola, mi piaceva studiare, purtroppo però non c’erano i soldi e dato che io ero una bambina sveglia, la maestra mi regalò il libro della quinta elementare perché potessi finire la scuola. Se solo avessi avuto la possibilità anche io avrei studiato come voi. Avrei tanto voluto farlo, mi piaceva molto, ma purtroppo non è stato possibile.
Quando decisi di andarmene, i miei genitori furono subito d’accordo. Allora, al paese, chi andava via, non era visto male. Tutti partivano alla ricerca di una vita migliore, ma se l’Italia fosse stata un posto migliore nessuno sarebbe partito per l’Australia o per l’America. Solo negli anni 1960 cominciò il boom economico e la gente piuttosto che andare all’estero si spostava al nord che era più ricco e che era in grado di offrire dei posti di lavoro.
Ogni mese inviavo loro una parte dei soldi che avevo guadagnato affinché mia madre potesse ripagare i debiti che aveva fatto per poter sposare la sua prima figlia. Pagai tutto io, al contrario di come vanno le cose adesso. A quei tempi erano i figli ad occuparsi dei genitori.
Con i soldi che tenevo da parte, mi comprai una gonna ed un paio di scarpe nuove. Comprai un orologio a mio marito, a suo padre ed anche alle mie sorelle Amelia e Maria. Portai a mia madre dei coltelli, delle posate e comprai anche delle cose utili per la casa. Feci un regalo a tutti. Potei, inoltre, comprarmi i mobili per sposarmi e mia madre comprò per me della biancheria come corredo per le mie nozze. Rimasi a Zurigo per due anni e quattro mesi, in seguito tornai al paese per sposarmi con Michele. Inizialmente non lo conoscevo, lo conobbero prima i miei genitori, ci presentarono durante una vacanza che feci in Italia mentre ero a Zurigo e in quell’occasione ci fidanzammo. Lui abitava in fondo al paese, ma era stato via molti anni da Orsara, tra la leva militare che fece prima a Foggia e poi a Trieste ed il suo trasferimento a Torino per cercare lavoro. Prima di sposarci, mentre io ero a Zurigo, ci scrivevamo alcune lettere per tenerci in contatto. Certo, dopo un po’ mi abituai alla lontananza, e nemmeno stavo male in Svizzera, però ero sempre all’estero, non era casa mia. Decisi quindi di tornare in Italia.
Adesso siamo signori, a quei tempi le persone non avevano niente, nemmeno l’acqua o la luce. La prima radio la comprò una mia vicina di casa che aveva il marito che lavorava per il comune come cantiniere del paese. Noi andavamo a ballare davanti a casa sua con la sua radio. Non si comprava mai nulla, si faceva tutto in casa.
Al mio ritorno la situazione a casa era migliorata, non c’erano più debiti da pagare. Io mi sposai e andai a vivere a Torino con mio marito. Mia sorella Amelia, nel frattempo, aveva raggiunto il marito in Svizzera, dove era nata la loro prima figlia, ma dopo qualche anno anche loro tornarono in Italia e vennero poi a vivere, per un periodo di sei mesi, a Torino con me e Michele. Anche a Torino ho continuato ad aiutare la mia famiglia, ospitando tutti a casa mia mentre cercavano lavoro. Dopo le nozze, la mia situazione economica era molto stabile, sia mio marito sia io avevamo un buon lavoro e facevamo una bella vita.
Posso davvero dire di aver conosciuto la miseria, e non è certamente una bella cosa. Adesso però c’è troppo. Adesso i figli non sanno più cosa siano certi valori, noi anziani ci sappiamo adattare, ma i giovani no. Vi abbiamo abituato troppo al benessere ed è solo colpa nostra!
Nella vita, bisogna saper risparmiare. Se non accumuli per quando hai difficoltà, se spendi tutto poi resti per strada. Come sta succedendo a molta gente in Italia oggi. Bisogna imparare che dove si toglie e non si rimette, non trovi più niente. Mia madre lo diceva sempre Acine e acine se fà a macina. Gente che un tempo era più ricca di noi oggi sta male, noi che non avevamo niente e abbiamo dovuto imparar a sopravvivere.
Io sono partita con sessantamila lire in tasca e una valigia di cartone dopo le nozze. Ho sempre lavorato e oggi, poiché abbiamo saputo risparmiare, facciamo una vita serena, possiamo aiutare i nostri figli a vivere bene. Possiamo garantirgli una casa, farli studiare, portarli anche in vacanza, compragli vestiti. E siamo solo noi, quei pochi che ancora hanno una pensione e un lavoro a mandare avanti questo paese che sta diventando l’Italia. Dopo tanti sacrifici, non si ha nemmeno più il diritto di avere un lavoro, stanno togliendo la dignità a questo paese, ai giovani.
Certo, io non ho fatto mai mancare niente alla mia famiglia, ma non basta avere tanti soldi, bisogna saperli gestire, occorre imparare ad usarli. Io rifiutavo di uscire con la vespa la domenica, ma almeno la mia famiglia sta bene, viviamo di lusso e altri hanno perso tutto e sono alla fame. Le persone si sono mangiate tutto, facevano i signori senza poterselo permettere, chiedevano prestiti su prestiti, spendevano tutto. Quelle persone ora vivono con due soldi al mese, e spesso o rifiutano dei lavori o peggio pretendono troppo. Il lavoro è una benedizione, ci vuole rispetto per chi ti dà da mangiare. Il rispetto per il lavoro e il rispetto per i soldi che si guadagnano sono per me fondamentali per vivere bene. Nemmeno bisogna vergognarsi di lavorare, si deve imparare ad essere umili ma farlo sempre a testa alta. Io l’ho fatto, e non me ne vergono. Ragazzi! Imparate da noi! se anche la società vi sta remando contro voi continuate a lottare. Non perdete la speranza e non arrendetevi. Chi saprà rimboccarsi le maniche riuscirà sempre ad ottenere qualcosa. Non aspettate che siano le decisioni del governo a schiacciarvi, reagite. Noi abbiamo lottato perché ci dessero i nostri diritti, e anche se loro, da anni, cercano solo di portarceli via, senza di voi non sono niente. Voi siete il futuro di questa Italia. Non fatevela portare via.
Jessica Di Martino, 2016