Vecchi Guerrieri

Vecchi Guerrieri

Dedicato alla mia famiglia, ma soprattutto a mia nonna Piera che sarebbe stata fiera di me per i legami ristabiliti con i cugini in America.

I testimoni, l’intervista e il mio ruolo di portavoce

Eravamo tutte lì, cinque donne di diverse età sedute allo stesso tavolo. L’inverno aveva finalmente fatto visita e la neve cadeva lenta e dolce, appoggiandosi su ogni piccola superficie. Era stato difficile trovarsi, non solo per le intemperie ma anche perché riunire quattro sorelle, che abitano in quattro diversi luoghi, aveva richiesto sforzo e impegno da parte di tutte. Le mie zie: Tere (Teresa), Maro (Maria Cristina) e Pina (Giuseppina), perché è così che le chiamo da quando ho pronunciato le mie prime parole, hanno tutte più di settant’anni; mia mamma Sandra, la quarta sorella, che è la più piccola della famiglia, ha invece sessantadue anni. Lo scopo di questa riunione era quello di poter avere informazioni riguardo la mia prozia Caterina che, all’inizio del secolo scorso, lasciò l’Italia con il marito Felice Domenico per spostarsi negli Stati Uniti.

Sembrava Natale a Coazze anche se era effettivamente il 22 febbraio; il profumo del caffè e delle bugie1si stava diffondendo in tutto il salotto di zia Tere. In realtà non eravamo solamente in cinque, c’era anche una presenza più silenziosa e virtuale, ovvero mia cugina di secondo grado Sandra Cresto, figlia della mia prozia Caterina. Sono stata l’unica in grado di ricontattarla, grazie a svariate ricerche su internet. Dopo anni e anni di distanze, non solo fisiche, considerato che risiede a Schaumburg, in Illinois, ma anche distanze emotive, mi sono sentita appagata e felice di aver ricostruito un importante tassello della mia famiglia: il legame con i parenti americani.

Quando comunicai alle zie e alla mamma che ero riuscita a trovarla, non potevano credere alle loro orecchie e senza nemmeno lasciarmi il tempo di concludere la frase, fui sommersa da decine di domande che avevano quattro intonazioni diverse: “Come l’hai trovata?”, “Come sta?”, “Lavora ancora alla biblioteca della sua cittadina?”, “Ha smesso di insegnare religione?”, “Luciano e Peter (marito e figlio) come stanno?”, “Parlate in inglese?”, “Sa ancora parlare l’italiano?”, “Tornerà a trovarci in Italia?”

Ammetto che non è stato tutto rose e fiori. Ci sono state risate, pianti e discussioni derivanti da quattro racconti che potevano sembrare diversi, anche quando il soggetto era lo stesso e anziché riportare semplicemente l’intervista sotto forma di domande e risposte, ho preferito creare una narrazione che mescolasse la ricostruzione del viaggio dei miei prozii e le tematiche tratte dal dialogo con queste testimoni. Naturalmente assieme ai ricordi riaffiorano anche emozioni, sentimenti, ci si lascia prendere dalla commozione e alle volte diventa difficile rimanere lucidi e oggettivi mentre si racconta.

Ringrazio che mi sia stata data la possibilità di dare voce ad una storia che, probabilmente, sarebbe rimasta sconosciuta non solo agli altri, ma anche alle future generazioni della mia famiglia. È importante conoscere le proprie radici e, forse per la prima volta in vita mia, ho scoperto alcuni lati di me. La genetica non riguarda solo l’aspetto fisico: le memorie familiari risiedono dentro ad ognuno di noi.

La vita in Italia

Correva l’estate del 1914 e le campagne che circondavano il piccolo borgo di Brondello (Provincia di Cuneo) erano verdi, fresche e rigogliose. Il ritmo della vita era scandito dal suono del campanile che dominava l’intero paesino. La piccola comunità, prevalentemente montana, era molto unita. Proprio a due passi dalla chiesa abitavano la famiglia Zuliani e la famiglia Cresto. La famiglia Zuliani, composta da madre, padre e quattro figli: Caterina (Rina), Giuseppina (Piera), Giuseppe (Beppe) e Luigi (Gino), si dedicava da tempo alla sartoria, confezionando abiti per tutto il paese. La famiglia Cresto invece, composta da madre padre e tre figli: Felice Domenico, Maria e Tina, era proprietaria dell’antica trattoria che operava nel paese. I destini delle due famiglie si incontrarono quando Felice, giovane sedicenne, si innamorò perdutamente di Caterina.

La Prima guerra mondiale era appena cominciata ma sembrava ancora così lontana dall’Italia, ma soprattutto lontana da Brondello. Felice trascorreva i pomeriggi della sua spensierata adolescenza quasi sempre con Giovanni. Giovanni era l’amico d’infanzia, avevano frequentato le scuole elementari insieme e amavano trascorrere il loro tempo giocando a carte o a bocce. Mia nonna Piera e mia zia Rina invece, già a tredici anni, lasciavano poco spazio al divertimento: erano molto ligie al loro dovere che era quello di lavorare il più possibile per portare a casa qualche soldo in più. I soldi non erano mai abbastanza, dopotutto era stato difficile mettere su una sartoria ed erano stati impegnati tutti i soldi dei miei bisnonni per rendere questo progetto realtà. La famiglia Zuliani era conosciuta da tutti per essere molto operosa: si erano costruiti tutto da soli, partendo da quei pochi spiccioli ereditati dagli antenati contadini.

Nel paese si conoscevano tutti e tutti conoscevano perfettamente le origini di ogni famiglia, proprio per questo Felice conosceva Rina da sempre e già da quando erano solo dei bambini lui l’aveva definita come “colei che avrebbe sposato”. Crescendo, le cose per Felice non mutarono; le innocenti battute infantili erano diventate parole e sentimenti di vero e proprio amore nei confronti di Rina. Inizialmente Rina non riusciva a prenderlo sul serio, dal momento che Felice era conosciuto da tutti per essere un grande giocherellone; aveva sempre la battuta pronta e sapeva come sdrammatizzare ogni situazione ma, sull’amore, l’amore vero che provava per la giovane ragazza, non scherzava affatto e solo dopo mesi e mesi di corteggiamento Rina si accorse che era tutto vero.

Passavano i mesi, la calma e la tranquillità cullavano le vite delle due famiglie ma soprattutto dei due giovani. Ormai era ufficiale, erano innamorati l’uno dell’altra e anche il legame tra le famiglie Cresto e Zuliani diventò sempre più stretto e di tanto in tanto, sia Rina che Piera, aiutavano nella trattoria della famiglia di Felice, mentre i genitori portavano avanti gli affari della sartoria. Mia nonna, donna molto precisa e attenta, osservava la mamma di Felice preparare ogni tipo di manicaretto e su un piccolo quaderno annotava tutte le ricette e gli accorgimenti annessi, per creare delle ottime pietanze. Grazie a mia nonna Piera e grazie alla mamma di zio Felice, la mia famiglia può oggi vantare un grande patrimonio culinario, partendo da preparazioni semplici per arrivare ai veri piatti della tradizione piemontese, come il Bollito, gli Agnolotti e il Brasato, tanto per citarne alcuni.

Nel dicembre del 1914, a poco a poco, i giovani del paese cominciarono e ricevere lettere da parte dell’esercito italiano per l’imminente entrata in guerra e anche a casa Cresto, nel gennaio del 1915, fu recapitata la lettera nella quale veniva comunicato a Felice Domenico di sottoporsi alle visite mediche richieste dalle forze militari. Ritenuto idoneo e pronto al combattimento era ormai obbligato a partire e Brondello sarebbe solo stato un lontano ricordo. Non lo sarebbe stato, però, Rina e proprio per questo, il 24 dicembre del 1914, giorno della Vigilia di Natale, Felice chiese la mano della sedicenne Rina, con la promessa che una volta rientrato dalla guerra avrebbero potuto sposarsi e finalmente vivere insieme.

La guerra e la decisione di partire

Il 24 maggio 1915 l’Italia decise di entrare in guerra, stipulando un patto segreto con la Triplice Intesa, composta da Gran Bretagna, Francia e Russia contro lo schieramento della Triplice Alleanza composto da Austria, Ungheria e Germania. Fortunatamente per lui, Felice non era il solo che aveva dovuto abbandonare Brondello: insieme a lui era partito Giovanni, il suo amico di una vita. Arrivati al fronte, nelle Alpi Orientali al confine con l’Austria, la vita era terribilmente cruda; erano davanti ad uno scenario che sembrava così paradossale rispetto a quello così tranquillo del paesino piemontese di origine. Dopo pochi mesi di guerra, date le profonde condizioni di malnutrizione e disidratazione, Felice fu colto da una grave dissenteria che lo portò a lottare tra la vita e la morte. L’amico Giovanni decise di abbandonare il battaglione di Felice per spostarsi in un altro, probabilmente perché pensava che nel nuovo battaglione avrebbe avuto più possibilità di sopravvivere. Felice prese questa sua scelta come un vero e proprio tradimento ma, si sa, la guerra trasforma le persone e l’animo umano. Probabilmente Giovanni, nel suo egoismo, era stato più lungimirante, dato che di lì a poco Felice venne portato in un campo di prigionia a Boldogasszony, località dell’Austria al confine con l’Ungheria. Le sue condizioni intanto continuavano a peggiorare ma, per fortuna, nel campo prestava aiuto la Croce Rossa che fu determinante per la sua guarigione. Purtroppo, è difficile risalire alle date di questi spostamenti perché i ricordi, con il tempo, tendono a svanire o a modificarsi. Si sa, però, che Felice, prima che si concludesse la guerra, rincontrò Giovanni al fronte con il suo nuovo battaglione e vide che era molto malato. La sua tosse mostrava i sintomi della patologia per cui poi avrebbe perso la vita: la tubercolosi. Un pezzo importante della sua infanzia e della sua vita se ne era andato e, nonostante il “tradimento”, restava comunque l’unico legame con Brondello. Una fredda mattina di novembre, più precisamente il giorno 3, arrivò il comunicato che la guerra era finalmente finita. L’Armistizio era stato firmato! Finalmente Rina e Brondello erano di nuovo vicini.

Intanto, nel cuneese, Rina attendeva con ansia il ritorno del suo amato, nonché promesso sposo. La guerra li aveva fatti allontanare, le lettere erano state poche e non sapeva con certezza se fosse ancora vivo o meno, non sapeva se sarebbe stata una promessa sposa o una mancata vedova.

Il 12 novembre 1918, Felix salì su un treno in partenza da Budapest. Le tappe del viaggio di ritorno furono diverse: prima arrivò a Fiume dove si imbarcò sull’Argentina, una nave che lo condusse fino a Venezia; prese poi un treno fino a Castelfranco Emilia, in Emilia-Romagna, e da questo paese, fino a Brondello, percorse il tragitto un po’ a piedi e un po’ con i mezzi di fortuna che trovò. Aveva lasciato il suo paese natale che era solo un ragazzino di 18 anni, e stava per tornarvici nei panni di un uomo di 22, che aveva visto e vissuto la guerra. Il giorno del suo ritorno non è stato segnato in nessun diario e quindi non è stato possibile risalirvi: sappiamo sicuramente che fu all’inizio del 1919.

Felice era molto contento di essere tornato a casa, ma lo scenario che gli si presentò davanti era ovviamente ben diverso da quello lasciato anni prima. La sua famiglia era stata decimata dall’influenza spagnola, ma fortunatamente si erano salvati sia i suoi genitori che la sorella Maria. Invece Tina, la più piccola, non ce l’aveva fatta: l’influenza spagnola l’aveva portata via con sé. Il ritorno non era stato così idilliaco, ma tutto migliorò quando finalmente rivide Rina. Sandra, sua figlia, mi ha confidato oggi che Rina aveva molto timore che le cose tra i due fossero cambiate e che lui magari non volesse più sposarla; invece la guerra non aveva cambiato le intenzioni del ragazzo. Felice però, prima di sposarla, doveva finire il periodo di servizio nell’esercito e per questo Rina, sempre lavorando come sarta, lo seguì a Savona, dove iniziarono una sorta di convivenza con l’inaspettato consenso delle famiglie; inaspettato perché all’epoca era necessario sposarsi prima di poter vivere sotto lo stesso tetto.

Ritornarono quindi al paese e il 12 aprile del 1931 i due convolarono finalmente a nozze. L’intera Brondello era in festa: tutti i compaesani parteciparono al matrimonio e la trattoria fu addobbata a dovere. Erano sempre stati orgogliosi del loro passato, del loro luogo di origine. Le rispettive famiglie ritenevano, però, che fosse giunto il momento che si costruissero una propria vita e che non dovessero essere più condizionati dalle scelte genitoriali; non volevano che lavorassero più per la trattoria o per la sartoria, era arrivato il momento di lasciarli vivere la loro vita, il loro sogno, dato che la guerra li aveva già messi a dura prova.

Giovanni non c’era più ma a Felice rimaneva Carlo, un altro dei suoi grandi amici, anche se sapeva che l’avrebbe perso perché, proprio qualche giorno dopo il matrimonio, il giovane uomo gli comunicò che stava per abbandonare Brondello alla volta della California: Felice ne rimase sconvolto. I motivi di tale partenza erano lavorativi, l’Italia del dopoguerra non era il luogo ideale per ricostruire una vita, soprattutto se si abitava in un piccolo paesino del Piemonte “dimenticato da Dio” (così come lo descrisse mio zio alla figlia Sandra).

Felice iniziò a mettere insieme i pezzi: una famiglia da costruire, la partenza di Carlo e nulla da perdere. Tutti gli indizi gli suggerivano solo una cosa: perché non provare a cercare fortuna in America?

Certamente sapeva che non sarebbe stato facile convincere sua moglie Rina; lei era così legata alla sua famiglia e in particolare alla sorella Piera. Rina aveva già dovuto sopportare la lontananza da lui a causa della guerra, perché doveva sempre rinunciare a qualcuno per essere felice?

Prima di prendere qualsiasi decisione che sarebbe risultata affrettata i due decisero, durante una cena con entrambe le famiglie presenti, di esternare le loro intenzioni e di vedere le reazioni che avrebbero suscitato. Non erano così egoisti e irriconoscenti nei confronti delle loro famiglie che li avevano sempre supportati. Le reazioni furono un’altra volta inaspettate: erano tutti entusiasti per loro, per un coraggio che pochi avrebbero avuto: erano disposti ad abbandonare il loro cuore a Brondello per costruirsi una famiglia e dare una prospettiva di vita più allettante ai loro futuri figli. Rina attendeva con ansia la reazione della sorella Piera; le mie zie e mia mamma mi hanno raccontato che mia nonna Piera si mise a piangere, ma non era dispiacere, era gioia. Di lì a poco anche lei sarebbe convolata a nozze e si sarebbe spostata a Torino con suo marito Stefano.

Era arrivato il momento in cui ognuna delle due sorelle iniziasse a vivere la propria vita. Il bene che si volevano non sarebbe mai cambiato, nonostante i chilometri e un oceano di mezzo.

L’America era ormai dietro l’angolo, era tempo di fare le valigie.

Il viaggio, l’arrivo nel Nuovo Mondo e la vita in America

Con il passare degli anni i ricordi sono offuscati ed è difficile distinguere cosa sia reale e cosa non lo sia; tutto ciò che le mie zie, mia mamma e mia cugina sono state in grado di

dirmi è che Felice e Rina partirono da Genova nel dicembre del 1932, ma, a causa di un’avaria al motore della nave, dovettero fermarsi a Napoli e, da lì, si imbarcarono sulla nave transoceanica Rex. Il viaggio era cominciato nel peggiore dei modi.

Non era stato tuttavia un viaggio così terribile, si aspettavano molto di peggio sentendo il racconto di Carlo o di quello che leggevano sui giornali. Nel trambusto della sottocoperta, raccontò successivamente mia zia Rina alla figlia Sandra, si respirava la vera atmosfera italiana; nonostante proprio in quegli istanti stessero malinconicamente lasciando il Belpaese, si cantava, si ballava ed ognuno raccontava le esperienze del proprio paese di origine. Già durante il viaggio, raccontò poi mia nonna Piera alle mie zie e a mia mamma, Felice e Rina avevano incontrato difficoltà linguistiche, ma perché? Non erano tutti italiani? Ebbene sì, ma l’Italia era un neo-stato, unificatosi solo nel 1861 e le differenze dialettali tra nord e sud non erano poche. Già il piemontese del Cuneese rispetto a quello di Torino era diverso (e lo è tuttora), figuriamoci rispetto al dialetto napoletano o siciliano. La nave era carica di italiani di ogni regione e durante la traversata, che durò esattamente tre settimane, Felice e Rina conobbero una coppia sposata di americani che avevano vissuto in Italia per vent’anni; si chiamavano Sam ed Ellie ed erano stati insegnanti di inglese in una scuola in Toscana. I quattro riuscivano a parlare in italiano, dato che i due nuovi amici conoscevano molto bene la nostra lingua e, da lì, strinsero una vera e propria amicizia.

Una volta giunti ad Ellis Island, Rina e Felix, rimasero sconvolti dalla grandezza degli edifici che vedevano in lontananza e della stessa statua che accolse la loro nave. Rina, in una lettera, confidò a mia nonna Piera che non pensava potessero esistere edifici così grandi e si chiedeva come avessero fatto a costruirli. Avrei voluto avere queste lettere tra le mie mani, ma i dati e i documenti sono ormai sparsi tra due continenti e tra due famiglie.

Felice e Rina inizialmente avrebbero dovuto recarsi in California, stato in cui risiedeva Carlo, ma lo stesso riferì loro che nella vigna in cui stava lavorando, e anche in quelle adiacenti, il lavoro ormai scarseggiava. La coppia si sentì quindi in balia dell’incertezza; che fare ora che erano a chilometri e chilometri di distanza da casa?

Sam ed Ellie ormai si erano affezionati a loro e vedendoli così soli e abbandonati a loro stessi in un paese che non era il loro, i cui abitanti parlavano una lingua “assurda ed incomprensibile” (così la definiva la zia) gli proposero di andare con loro a Chicago, nello stato dell’Illinois, dove vivevano le famiglie della giovane coppia americana. Cosa avevano da perdere? Tanto valeva mettersi in gioco completamente, anche perché i due erano gli unici in grado di aiutarli nelle mille problematiche suscitate dalla assoluta ignoranza della lingua americana.

Una volta giunti a Chicago, dopo tre estenuanti giorni di treno, Sam ed Ellie li invitarono a vivere presso le loro famiglie fino a quando non avessero trovato un lavoro ed abbastanza soldi per una sistemazione. Vivevano quindi nella zona nord di Chicago e i lavori che ritenevano alla loro portata o perlomeno i lavori che pensavano di poter fare, senza dover parlare molto, erano pochi. Felice, diventato poi Felix Dom in America, trovò lavoro in una segheria e Rina trovò impiego in una sartoria e nel 1938 riuscirono a trasferirsi per conto loro in un appartamento non lontano dalle famiglie di Ellie e Sam. La segheria non era un luogo accomodante, l’estate era infernale e l’inverno era glaciale, ma Felix non si lasciò scoraggiare nonostante il basso salario: doveva a tutti i costi imparare quella lingua bizzarra. Sandra mi ha scritto in una e-mail, che il papà girava sempre con un quadernino in tasca dove annotava tutte le cose che avrebbe dovuto imparare e ricorda anche quanto la facesse ridere il racconto delle difficoltà che il papà trovava ad esprimere un concetto. “Sembravo una scimmia” le diceva, “sembravo una scimmia”. Nel giro di otto anni era riuscito però ad imparare perfettamente l’inglese.

Rina aveva avuto invece notevoli difficoltà, lei era molto più condizionata da una ristretta visione di paese. Era scioccata dall’ambiente nuovo in cui viveva. Chicago era enorme, bella, ricca ma non era Brondello! Inizialmente i genitori di Ellie la accompagnavano nei negozi per insegnarle l’inglese di base, utile per poter comprare i beni di prima necessità, poi iniziò ad andare da sola. Le mie zie mi hanno raccontato un aneddoto risalente alla volta in cui lei stessa, uscita dal negozio del verduriere si mise a ridere: non sapendo come fare per comprare dei semplicissimi pomodori, Rina disse “Tùmatica”, ovvero la parola che avrebbe utilizzato dal solito verduriere di Brondello; inizialmente il commerciante ebbe difficoltà a capire, ma la seconda volta che lo sentì ripetere capì che in realtà stava intendendo “Tomatoe”. Rina era più lenta ad apprendere l’inglese ed arrivò ad avere una buona conoscenza della lingua solo negli anni Cinquanta.

Rina spediva ogni settimana lettere alla famiglia in Italia, la maggior parte indirizzate alla sua amata sorella Piera, ed in una delle tante le comunicò che stava aspettando una figlia. Il 7 novembre del 1941 nacque Sandra. Dopo ormai quasi dieci anni trascorsi in America e dopo la nascita della piccola era giunto il momento di cambiare lavoro e magari anche di cambiare casa. Felix leggeva quotidianamente il giornale per trovare un lavoro che potesse andare bene sia per lui che per Rina. Vide la loro occasione in un annuncio che proponeva la vendita di un piccolo negozio di prodotti alimentari nella zona sud di Chicago. Felix e Rina investirono quindi tutti i loro risparmi nell’acquisto del locale e della casa adiacente. “Finalmente vivo in una bella casa con il giardino, mi ricorda il nostro prato dietro casa a Brondello”, così Rina la descriveva a Piera nelle sue lettere.

Il negozio andava a gonfie vele e negli anni Cinquanta riuscirono anche ad inviare soldi a casa alle loro famiglie in Piemonte. Erano ormai completamente integrati nella società, era difficile che non li scambiassero per degli statunitensi veri e propri.

Piera diede all’ultima figlia, ovvero mia mamma, lo stesso nome della figlia di Rina, Sandra, perché voleva che ci fosse un legame tra le cugine. Sandra Cresto, sposata Mordini, conosce e sa parlare l’italiano, dato che, nonostante vivessero a Chicago, in casa si parlava solo ed esclusivamente italiano.

Mia cugina Sandra ama l’Italia perché, più volte, Rina e Felix, quando erano ancora in vita, le avevano dato la possibilità di scoprire il paese, le sue origini e i parenti. Sandra ha poi avuto un figlio, Peter, a cui ha trasmesso tutta la cultura italiana, a partire dal cibo e da tutte le ricette che Rina e Felix le avevano insegnato a poco a poco crescendo. Peter, sfortunatamente però, non conosce l’italiano perché ormai la lingua americana ha prevalso su quella italiana.

Poche settimane fa Sandra mi ha comunicato che lei ha avuto accesso a tutte le informazioni datemi, grazie ai racconti ascoltati in prima persona e grazie a qualche pezzetto di carta sparso qua e là che mio zio Felix scrisse negli anni Settanta, quando l’America era impegnata nella guerra del Vietnam. La guerra, la stessa esperienza che lui aveva vissuto sessant’anni prima.

All’età di 78 anni, mia nonna Piera partì per Chicago insieme a Pina, una delle sue figlie, per celebrare con Rina e Felix i loro 50 anni di matrimonio e quella fu l’ultima volta in cui le due sorelle si abbracciarono.

Valeria Menoni, 2018

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