Caro nonno Antonio

Caro nonno Antonio

Caro nonno Antonio,

 

L’avresti mai detto che saremmo finiti in un museo ? Eppure eccoci qua, a raccontare la storia della nostra famiglia per il museo dell’emigrazione che vogliono fare a Gualdo Tadino. Tu non sei di Gualdo ma di Spoleto, ma tanto in Francia ti chiamavano Perugia, e come tanti di Gualdo sei andato in Lorena, all’inizio del Novecento, per lavorare nelle miniere. Immagino che tu abbia fatto il viaggio in treno. Quella volta che sono andata a vedere il tuo paesino, mi sono immaginata quello che hai provato a lasciare il posto dov’eri nato, nel 1886.

Poi, me lo aveva raccontato lo zio Hugo, sei andato e venuto cinque volte, fino al 1913. Allora sei stato costretto a fermarti un po’. Ti sei sposato con Bernardina, è nato il tuo primo figlio, Guerrino. Mi hanno raccontato che sei partito per andar a far la guerra. Guerrino è nato forse mentre eri via ?

Dopo la fine della guerra, sono nati altri due figli, Ugo (Hugo) e Piombina. E nel ‘22, proprio nel mese d’ottobre, hai lasciato di nuovo l’Italia per lo stesso posto in cui eri stato prima della guerra. La nonna ti ha raggiunto un mese dopo. Chi sa come si sentiva lei, a viaggiare da sola, a ventisei anni, con tre figli di sette, tre e neanche un anno, verso un posto sconosciuto ?

E vi siete sistemati lì, a Audun-le-Tiche, in mezzo a tanti altri italiani di cui avevano bisogno per il lavoro della miniera e per mandare avanti le fabbriche. Non so neanche se siete più ritornati in Italia. Sono nati altri due figli in Francia, Gino e Aldo, ma loro non sono andati in miniera. La nonna non ha più voluto perché Guerrino, a soli diciotto anni, in miniera, ci è morto.

Se ti avessi conosciuto (ci hai lasciati neanche un anno prima della mia nascita), non avremmo parlato in italiano ma in quel francese un po’ strano che ho sentito parlare dalla nonna quando ero piccola piccola. I tuoi figli lo sanno tutti l’italiano, anche se non è proprio l’italiano che si impara a scuola. Pure alcuni dei tuoi nipoti e pronipoti lo sanno. E a tutti piacciono i piatti italiani. A Natale continuiamo a fare la torta in casa, come la faceva la nonna, per Pasqua la crescia e i cappelletti per ogni grande festa familiare, insieme a piatti francesi, friulani (i miei nonni materni erano friulani)... Sappiamo anche delle canzoni italiane sentite in casa.

Io l’italiano, ho voluto studiarlo a scuola. Ma non mi è bastato. Ho voluto studiare la storia degli italiani fuori d’Italia. Penso proprio che la voglia mi sia venuta parlando con mia nonna materna, Noemi. Da piccola, restavo per ore e ore a parlare con lei. Mi ha raccontato che faceva l’operaia in un cotonificio a Torino. Un suo fratello volle emigrare in Francia e convinse la sorella, che non aveva neanche diciassette anni, ad accompagnarlo. Da come l’ho sentita parlare, mi sembra che Noemi non abbia mai accettato questo trasferimento che l’ha costretta a fare lavori molto più duri di quello che faceva in Italia (trasportare tegole in una fabbrica, fare da mangiare per gli operai e lavare a mano i loro panni da lavoro, così pesanti e sporchi della polvere rossa della miniera o nera della fabbrica). Si è sposata in Francia con uno del suo paese e anche loro hanno avuto dei figli con un nome italiano.

Le circostanze hanno fatto sì che non sia potuta restare nella regione dove si è stabilita la mia famiglia. Allora sono andata molto lontano, in Brasile, per la mia tesi di dottorato che hanno esposto qua, nel museo. Ma mi sto avvicinando sempre più e dovunque vado seguo le tracce degli italiani emigrati, come nel Sud-est della Francia dove lavoro adesso.

A Marsiglia, un’amica di lontana origine italiana (quattro o cinque generazioni), di nome Ferrary, mi ha spiegato che non conveniva mettere in dubbio l’origine della Y del suo nome, perché un tempo non era ben visto essere lavoratori italiani che «venivano a rubare il pane dei francesi...» Forse avranno pensato, in questo museo, a esporre qualche illustrazione della xenofobia dei francesi nei confronti degli italiani, quando, in altri tempi, si diceva di loro che erano sporchi, che avevano un cattivo odore, che mangiavano cose strane (tipo pasta a forma di «vermi disseccati»).

Non so se tu abbia avuto a soffrire di questo, se ti abbiano chiamato macaronì. Ma quello di cui sono certa è che tu non avresti disprezzato quelli che oggi, in Italia come in Francia e in tutto il mondo, continuano a spostarsi per i motivi più vari, venendo da altri orizzonti.

I tuoi pronipoti hanno tre nomi, un nome tutto loro (Sami e Eddi), un nome italiano (uno Antonio come te e il secondo Giovanni come l’altro bisnonno) e un nome arabo (Brahim e Omar) perché anche loro sono all’incrocio di varie culture. Guarda cosa mi ha scritto un amico poeta per la nascita del mio primo figlio :

 

Evviva il piccolo Samì

Ovunque nel Mediterraneo

Presto potrà far la pipì

Senza turbar acque né balneo

B’arcalla, vi sarà chez lui.

(Jean-Charles Vegliante)

 

E tu, nonno, dov’è che ti sentivi a casa tua ? Tanti hanno rimpianto per tutta la vita il paesino o la città che li aveva visti crescere e che hanno lasciato. Altri non hanno più voluto sentirne parlare. Noi dell’Italia, ne parliamo volentieri perché, in un certo modo, continua ad appartenerci.

Grazie nonno,

Isabelle

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