Un bel salto...

Un bel salto...

Quando mi sono recata da Roberto, un amico di famiglia, per svolgere l’intervista, ero convinta che avrei trascorso un piacevole pomeriggio ascoltando aneddoti sulla sua esperienza migratoria che, in gran parte, già conoscevo grazie a precedenti racconti proposti attorno ad una tavola imbandita nel periodo natalizio. Dopo le tre ore passate assieme, tuttavia, sono tornata a casa con la consapevolezza che questo incontro, durante il quale certamente tali aneddoti sono riemersi, mi aveva invece permesso di capire quanto quest’esperienza, che potrebbe facilmente essere scambiata per una semplice parentesi nella sua vita, abbia lasciato un’impronta profonda nel mio interlocutore e di quanto la mia attuale permanenza in Francia lo abbia portato a ripensare con maggiore intensità alle emozioni provate in un periodo della sua esistenza ormai lontano.
 Aveva tredici anni Roberto quando, nel 1952, è emigrato da Campo Clot, una piccola borgata montana del comune di Rodoretto (Val Germanasca, Piemonte), a Marsiglia. Fu «un bel salto», un cambiamento radicale, da un ambiente rurale alla città, da un posto che conosceva come le sue stesse tasche ad un luogo completamente sconosciuto, dal mondo dell’infanzia a quello degli adulti, del lavoro e delle responsabilità.
Roberto è partito perché la zia materna, che già abitava a Marsiglia con la propria famiglia, aveva chiesto ai suoi genitori di mandarlo ad aiutarla in bottega. Lo zio era «decoratore, peintre en bâtiment per l’esattezza; almeno così si diceva allora, adesso non so come dicano» e parallelamente la zia teneva un negozio di articoli d’edilizia (carta da parati, tappezzerie, vernici, bianco, calce e simili).
A spingere i genitori del ragazzo ad accettare tale richiesta fu il fatto che i giovani della Val Germanasca, una volta superato l’esame di quinta elementare, spesso dopo aver ripetuto qualche anno scolastico per rimandare l’ingresso nel mondo del lavoro, erano destinati alla miniera di talco della valle, con tutte le fatiche e i pericoli che questo comportava. «Qui non c’era nessuna prospettiva: miniera! Finivamo tutti lì.» Di conseguenza, mandare un figlio a lavorare in un negozio era un’alternativa alquanto allettante, tanto più che Roberto sarebbe comunque rimasto in famiglia.
Inoltre, nell’estate, la cugina francese, venuta in vacanza in zona, aveva vinto la titubanza di Roberto parlandogli di automobili, biciclette e cinema… «cose che da noi non c’erano mica». E, una volta a Marsiglia, egli ha effettivamente imparato ad andare in bicicletta ed è poi rimasto così affascinato dal primo film che ha visto, Quo Vadis, da raccontarlo nei minimi dettagli al fratello in occasione della sua prima visita a casa, dopo più di un anno di soggiorno in Francia. 
Così, la partenza fu decisa, non senza qualche reticenza: «Mia mamma mi aveva concesso di andare sì, solo che sai, alla fine non era per niente convinta: mandarmi così lontano... a tredici anni!...». E, anche dopo la partenza, la madre non aveva appreso con piacere dalle parole di una conoscente di ritorno da Marsiglia, (Votre filh â counoui Marselho mélh quë mi, «Suo figlio conosce Marsiglia meglio di me»), che Roberto, invece di essere sempre «al sicuro» in negozio, a volte doveva farsi lunghe passeggiate a piedi per recuperare dai grossisti della città i rotoli di carta da parati necessari per finire un lavoro.
In ogni caso, ai primi di settembre, accompagnato dallo zio decoratore, Roberto salì sul pullman di linea che lo avrebbe portato fino a Briançon da dove, dopo un’ora d’attesa, avrebbero preso il treno per Marsiglia. La madre, salita anch’ella sull’autobus, gli stava dando le ultime raccomandazioni, quando il pullman partì: dovettero gridare all’autista di fermarsi per permetterle di scendere. E poi il viaggio ebbe inizio.

Dopo forse un’ora ho iniziato a piangere e ho continuato più o meno per tutte le otto ore di viaggio; in tutto il giorno, mi ricordo, ho mangiato un uovo sodo. E quando stavamo già scendendo, lungo il versante francese, mi giravo indietro a guardare le montagne e pensavo a quando avrei rivisto quel panorama tornando a casa. 

Ironia della sorte, tutte le volte che è rientrato in Italia, Roberto ha poi viaggiato di notte, quindi senza mai rivedere quelle montagne che tanto gli erano rimaste impresse il giorno della partenza. Infatti, esisteva una sorta di servizio taxi notturno Marsiglia-Val Germanasca effettuato, come riporta il passaporto che Roberto mi mostra mentre racconta, da Micol Jean-Paul, un uomo ormai naturalizzato francese ma originario di Massello, altro piccolo comune della valle (e un servizio simile era offerto anche da un signore di Cuneo). 

Arrivato a casa da mia zia, sono di nuovo scoppiato a piangere gettandomi tra le sue braccia per cercare conforto, come avrei fatto con mia mamma. Ma mia zia era una donna decisa: mi ha consolato, certo, ma mi ha anche detto che «a piangere non risolvi niente, bisogna combattere, affrontare le difficoltà con decisione»... e ha poi avuto ragione!

Roberto ha così iniziato la sua nuova vita a Marsiglia: un po’ aiutava la zia in negozio, un po’ andava dal cugino (suo figlio) che aveva un altro negozio di articoli d’edilizia vicino al porto (e prima che questo fosse chiuso, dopo la morte dello zio, Roberto ne fu per qualche tempo responsabile, per poi lavorare con il cugino come imbianchino), un po’ aiutava lo zio a fare l’imbianchino e un po’ girava la città con lo zio Aldo.
Roberto, infatti, aveva già un buon numero di parenti in Francia: anche un altro zio materno, Aldo, pur continuando a fare la spola tra la Francia e l’Italia, era emigrato con la moglie ed il figlio a Marsiglia. Altri cugini da parte di padre, invece, già nati in Francia (i genitori erano emigrati prima della Grande Guerra), vivevano a Cassis, dove avevano una ferme, «un posto stupendo, quella cascina in montagna». La visita a questi parenti era rimasta impressa a Roberto per il buon cibo, per l’odore del vino prodotto durante l’ultima vendemmia che saliva fino alla stanza in cui egli alloggiava e perché il cugino, sceso in paese con cavallo e calesse, gli aveva comprato L’Intrépide, giornale con fumetti, fotoromanzi e qualche rubrica didattica che a volte Roberto leggeva già in Italia. « Ero al settimo cielo! »
Lo zio Aldo è forse stato colui che ha incontrato le difficoltà maggiori nel percorso migratorio: prima di riuscire a naturalizzarsi, aveva soltanto un permesso di soggiorno che lo costringeva ad effettuare ripetuti viaggi a Milano per questioni burocratiche. Inoltre, quando Roberto era arrivato a Marsiglia, egli stava cercando casa perché aveva dovuto abbandonare la precedente (e spesso il nipote lo accompagnava nelle sue ricerche, che gli permettevano di conoscere meglio la città).

Ogni tanto dall’alto di Marsiglia guardavamo giù e lui mi diceva: «Guarda come è enorme la città… e io non trovo un posto dove andare a dormire!»
Può darsi che fosse anche per discriminazione ma questo non me lo ha mai detto, non ne abbiamo mai parlato.

Lo zio Aldo è stato un punto di riferimento per Roberto: gli ha insegnato ad assumere un atteggiamento più disinvolto di fronte a cose che lo stupivano e a tenersi al suo braccio con più delicatezza, senza aggrapparvisi con tutte le sue forze come aveva fatto la prima volta che erano usciti insieme a girare in quella città che «con quelle case così alte, quelle strade così larghe, tutta quella confusione» lo intimoriva un po’. «Quando vedevo passare una macchina (e allora, rispetto a quando sono tornato con Mirella [la moglie], erano ancora poche!), la seguivo finché non scompariva allo sguardo. Sai, qui a casa vedevo solo capre, mucche e qualche bicicletta.»
La sera, quando abitavano tutti dalla zia, Aldo e Roberto, il più anziano con la fisarmonica e il più giovane con l’armonica a bocca regalatagli dal fratello, suonavano insieme le canzoni che venivano cantate in Val Germanasca nelle vëlhâ (le veglie serali nella stalla, durante le quali le famiglie si riunivano per passare la serata in compagnia, facendo piccoli lavoretti mentre si chiacchierava e cantava o, soprattutto per i più piccoli, si giocava). Queste canzoni riportavano storie, credenze, leggende ma soprattutto narravano del lavoro, della famiglia, dell’emigrazione, della guerra, insomma della vita dei valligiani. «E la domenica era festa per davvero per me perché andavo da mio zio Aldo e con mio cugino mangiavamo già i primi yogurt, senza frutta ancora, al naturale, ma era già una leccornia.» L’ammirazione e l’affetto per lo zio traspaiono chiaramente dalle parole di Roberto.

Questo zio era un combattivo: ha fatto anche lui le sue battaglie e lui non cedeva, era uno tosto! Vedi, aveva anche uno sguardo un po’ truce, non venivano mica a importunarlo! Era muratore, lavorava come una bestia! Aveva una forza di volontà incredibile, una voglia di stare lì a lavorare! Io credo che dopo un po’ mi sarei scoraggiato e avrei lasciato perdere, ma lui no! Anche perché aveva pure il figlio che studiava lì…

E così lo zio Aldo si è poi accontentato di quella che un tempo era stata la stanza della bonne, al quinto piano di un immobile, una pièce di 3 metri per 1,5. « Ah, j’ai compris: vous êtes dans un placard. » disse il medico di famiglia durante una visita a domicilio. 

Ma mio zio si era organizzato! E in quella piccola stanza aveva un letto a castello e una branda che di giorno veniva infilata sotto il letto, un tavolino agganciato al muro che veniva abbassato in orizzontale all’occorrenza, le sedie avevano dei cassetti e, quando si mangiava, due stavano seduti sul letto; c’era il lucernario che dava sul tetto e mio zio aveva messo un imbuto per collegarsi alla grondaia in modo da potervi versare l’acqua dei piatti. La necessità aguzza l’ingegno!

E anche Roberto, effettivamente, ha adottato le sue piccole astuzie: per non perdersi mentre svolgeva le commissioni affidategli dagli zii, si era dotato di una piantina di Marsiglia, prendendo in negozio, senza che nessuno glielo suggerisse, un calendario che aveva notato avere sul retro una cartina della città.
Anche al di fuori della cerchia famigliare, Marsiglia non era certo una città povera di italiani e molti erano di origine piemontese o provenivano addirittura dalla stessa Val Germanasca; ciò ha quindi permesso a Roberto di stringere legami con altri emigrati e di sentirsi un po’ meno distante da casa. È il caso dell’operaio del vicino: «I primi tempi dopo il mio arrivo, c’era un carbonaro che abitava vicino a mia zia e che aveva un operaio originario della provincia di Cuneo; allora, seduti sul muretto davanti a casa, qualche parola in italiano la dicevamo!»; o del signore di Rodoretto che faceva il ramoneur: «Con mio zio, eravamo andati a fare un lavoro da lui. Mi aveva regalato una salopette. Ero contentissimo! Me lo ricordo anche perché balbettava un po’; ma ogni tanto canticchiava e allora non balbettava più.» 
Del resto, nel periodo in cui Roberto gestiva il secondo negozio di famiglia, anche un francese, il vigile del quartiere dove il locale era ubicato era diventato suo amico e andava a fargli visita in bottega.
Un altro grande centro d’incontro presente a Marsiglia era l’Union Vaudoise che Roberto ha frequentato essendo valdese e che permetteva a tutte le persone emigrate dalle Valli Valdesi di incontrarsi e di riunirsi in occasioni importanti, quali la festa del 17 febbraio. «C’era molta gente, ti trovavi e poi chi tornava nelle Valli dava notizie degli altri ai relativi parenti».
In Piemonte, le Valli Germanasca, Chisone e Pellice, non a caso denominate Valli Valdesi, sono state storicamente una roccaforte valdese, dove questa confessione religiosa (una minoranza cristiana non cattolica che ha preso le mosse dalla predicazione di Valdo da Lione nel XII° secolo e si è poi diffusa in tutta Europa, radicandosi maggiormente nelle Alpi Cozie, in Provenza, in Calabria e nella Germania meridionale) è sopravvissuta alle persecuzioni della Chiesa cattolica e dei regnanti di Francia e d’Italia fino ai giorni nostri. Il 17 febbraio è una delle festività più importanti per gli abitanti di queste valli, in ricordo del giorno in cui Carlo Alberto, nel 1848, concesse ai Valdesi i diritti civili e politici nel Regno di Sardegna; per questo motivo, tale festa veniva ricordata e celebrata anche da chi aveva lasciato le Valli alla volta di altri luoghi. 
Roberto ha seguito il catechismo (che i Valdesi svolgono tra i tredici e i diciassette anni) a Marsiglia e, in occasione della sua Confermazione, effettuata all’età di sedici anni (un anno prima rispetto al previsto), entrambi i genitori andarono a trovarlo. «Ma prima mia mamma era già venuta una volta da sola. Figurati, in tutta la sua vita, era forse andata una volta a Torino! Ma non aveva resistito! E così aveva preso il pullman e poi il treno per venire da me.»
Roberto ricorda che a catechismo aveva anche dovuto mettere alla prova il suo francese un po’ incerto, soprattutto nello scritto. 

Dovevo scrivere dei commenti ai passaggi biblici e mia zia me li correggeva; spesso il pastore diceva: «Robert ha un po’ di difficoltà nella lingua», ma era tutto perdonato. Lo capivano. Ero ben visto come straniero, anche perché a Marsiglia, città portuaria, c’era un po’ di tutto. Non ero certo un’eccezione e facevano pochissima differenza.

Di fatto, Roberto non ha mai imparato a scrivere francese correttamente, sebbene avesse qualche rudimento della lingua già prima di partire perché a Rodoretto le lezioni di scuola domenicale (il precatechismo) venivano tenute in francese e, inoltre, sua mamma lo insegnava a scuola. «Era il francese un po’ approssimativo delle Valli, ma si vede che avevo un presentimento perché mi piaceva e ascoltavo volentieri le sue lezioni!»
Saggiamente, la zia di Marsiglia gli aveva imposto di parlare francese anche in casa, affinché Roberto lo apprendesse il più velocemente e correttamente possibile, sebbene lei e lo zio parlassero tra loro in patouà. «Mi vergognavo un po’ a parlare in francese a mia zia e mi veniva spontaneo tradurre alla lettera dal patouà. Un giorno sono entrato in negozio e c’era la luce accesa, così ho detto alla zia: “Tante, je tue la lumière?”», dal patouà Amasou la lücche?, dove il significato primo del verbo amasâ è uccidere, anche se in questa specifica occorrenza indica l’azione di spegnere la luce.
Quando Roberto aveva quasi sedici anni, la zia andò al consolato per regolarizzare il suo permesso di soggiorno, dato che, fino a quel momento, il nipote era stato loro ospite. Tuttavia, al consolato le dissero che i permessi di soggiorno per apprendisti peintre en bâtiment erano già tanti (nonostante questo fosse un lavoro più ricercato e meno frequente rispetto al muratore, mestiere ampiamente diffuso tra gli immigrati) e le suggerirono di avviare le pratiche per la naturalizzazione di Roberto. Nei decenni precedenti, tale operazione avrebbe richiesto molto più tempo, ma all’epoca il passaggio di nazionalità poteva essere effettuato in un anno, probabilmente perché, di fronte al conflitto che si andava profilando in Algeria, le autorità francesi ritenevano utile accrescere il numero di cittadini potenzialmente richiamabili alle armi. 

Per me era indifferente essere francese o italiano; anzi, forse propendevo quasi di più per la naturalizzazione: quando ero a Marsiglia, stavo bene là. Il problema era quando tornavo a casa, perché poi ripartire era difficile. La nostalgia è una brutta bestia! Al punto che invidiavo mio fratello che poteva stare lì a portare la gerla piena di letame, forse una delle cose più odiose che si dovevano fare da noi a Campo Clot, mentre io dovevo andare via.

Alla fine, fu proprio la paura che Roberto fosse arruolato nell’esercito e mandato in Algeria («Mio cugino, che era già nato in Francia, è dovuto andare laggiù.») a spingere la madre a fargli mantenere la cittadinanza italiana e, quindi, a farlo rientrare a casa. 7 aprile 1955, recita il passaporto: questa la data del definitivo rimpatrio di Roberto. 
Robert è così tornato ad essere Roberto, ma il ragazzino che era partito (guardo la sua foto con i sandali comprati appositamente per la partenza e mi pare così giovane, un bambino ancora!) è tornato adulto da quest’esperienza, un capitolo fondamentale della sua esistenza, ancora vivido nei suoi ricordi fin nei minimi particolari, dai nomi delle vie alla disposizione degli arredi in casa, dagli episodi più ordinari agli eventi che hanno in qualche modo determinato il suo futuro, dalle gioie ai dolori che l’hanno reso l’uomo che è tuttora. 
    
«Una volta tornato, per i primi tempi ho lavorato nelle piantagioni di abeti che avevano istituito sopra Rodoretto per le quali assumevano ragazzi e ragazze della mia età e l’anno dopo ho poi iniziato a lavorare in miniera.» Con il tempo, Roberto si è costruito una famiglia e non ha più lasciato la Val Germanasca, se non per i viaggi di piacere e le visite ai parenti rimasti in Francia.

Marta Massel, 2016

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