Un percorso migratorio un insegnamento di vita
Ali, un nome, tre lettere. Lo specchio di un’umiltà. Un concentrato di vitalità che va diritto direttamente con determinazione.
La prima lettera: la “A”, una vocale bassa, quella più aperta, come la sua mente e l'ampiezza delle sue riflessioni.
La seconda lettera: una consonante, ma non qualsiasi, una consonante laterale, cioè una consonante di cui il suono esce grazie allo spazio lasciato soltanto sui lati, la parte centrale essendo ostruita. La “L” però si trova esattamente in mezzo al nome.
L'ultima lettera. Di nuovo una vocale: la “I”. Questa volta quella più alta e chiusa, quasi come se non esistesse, così discreta che non c'è neanche bisogno di muovere le labbra per pronunciarla. Che se la dici piano sembra semplicemente respiro. Ma se la dici forte però, diventa un suono insopportabile.
E basta, è già finita la parola.
Un nome pieno di alternanze, come un intreccio, un groviglio, un tessuto, un testo in se. Potrebbe quasi essere letteratura. Una parola in apparenza semplice vista dall'esterno, dovuto alla sua cortezza, ma insospettabilmente complessa dall'interno.
Ecco Ali.
Ringrazio Ali tantissimo per aver condiviso con me la sua esperienza e la sua visione della vita che ha acquisito grazie alla sua storia, al suo vissuto e alle sue esperienze. L'ho conosciuto tramite un amico in comune. Ali ha accettato subito di parlarmi della sua storia e di partecipare al progetto. Non lo conoscevo, non l'avevo mai visto, non sapevo neanche quanti anni avesse. Da come me ne aveva parlato il nostro amico comune mi sembrava una persona con tanto vissuto e di una grande saggezza. In realtà ho conosciuto una persona più giovane di quello che mi aspettavo. Giovane fuori ma ancora più giovane dentro. Una persona leggera, che sventola nell'aria come una piuma si fa guidare dal vento, fidandosi, perché ha capito che il mondo lo crea lui, come ognuno crea il suo.
Gli ho proposto di vederci alla caffetteria della mediateca ma preferiva che ci vedessimo alla terrazza di uno dei suoi caffè preferiti, dove sta spesso, su una piazzetta nel centro storico della città. Arrivai mentre stava disegnando per passare il tempo aspettandomi. Iniziammo a parlare e capii subito chi avevo davanti: un mio coetano, colto, aperto e con un’energia così potente che mi lasciò di stucco. Parlammo per un'ora e mezzo. Mi raccontò la sua vita a grandi linee. Ma soprattutto mi parlò della vita, quella con la V maiuscola. Mi parlò dell'umanità, della terra, di come si scambia con l'universo, di come si relaziona con gli altri e di come si sente far parte del mondo. Subii il suo fascino per la sua libertà, mi sconvolse il suo modo di vivere in una maniera semplice e felice e di imparare dalla vita. La sua scuola è l'esperienza, gli incontri con le persone, i libri e la filosofia per raggiungere la conoscenza di se stesso e per poter approcciare il mondo in modo sereno.
Ci vedemmo poi una seconda volta, sempre allo stesso posto. Era una bella giornata soleggiata. Il caso fu che vicino al nostro tavolo erano seduti due persone che appena ci hanno sentiti parlare in italiano ci hanno chiesto se eravamo italiani. La signora era piemontese e vive a Montpellier da quindici anni. Aveva fatto l'università a Paul Valery: la licence d'italiano e la specialistica “master recherche”.
Probabilmente un occhiolino dalla sorte che si divertiva…
Dopo aver chiacchierato con loro qualche minuto, io e Ali iniziammo l’intervista.
Ora ti racconta lui la sua storia.
Sono Ali e sono nato il 6 marzo 1987 in Marocco. Ho vissuto lì fino ai 9 anni. A Khouribga, un paese povero dove il modo di esprimersi per noi, ragazzetti dell’epoca, era la rissa, spaccare la testa al compagno che ti prende in giro, picchiarci con le pietre, correre, rubare per avere qualcosa e vivere l'istante. Un mondo crudele per occhi occidentali di oggi, lo capisco, ma normale per i nostri occhi, trent'anni fa in un contesto di povertà. Dovevamo essere forti, non potevamo mostrare debolezze, era una questione di sopravvivenza.
Ero un bambino particolarmente agitato. Forse perché mi sentivo incompreso ed era il mio modo di esprimere la mia personalità, attirare l’attenzione su di me per tentare di essere capito.
A scuola le maestre mi picchiavano spesso. Una di loro mi picchiava con dei cavi. Questa violenza era diventata una droga per me, perché sapevo che il mio comportamento era la causa per la quale venivo picchiato ma lo facevo lo stesso. Non sentivo neanche più il dolore, sentivo solo il suono del cavo che attraversava l'aria prima di frustare la mia pelle.
Un'altra maestra mi pizzicava l'orecchio con le unghie, una cosa terribile.
Questi sono i ricordi che ho del Marocco.
Adesso ti parlo dell’Italia.
Io e la mia famiglia partimmo nel 1996 per il nord dell'Italia, a Nizza Monferrato di preciso, tra Torino e Genova. Eravamo tre figli e io ero l'ultimo. Il quarto non era ancora nato. Papà e mamma vengono dalla campagna, dove il livello culturale è inesistente ma la forza di vita immensa. Papà era già partito in Italia da sei anni per lavorare, per migliorare la sua vita. Poi i miei decisero di trasferirsi con noi e di migliorare la vita di tutta la famiglia. Altre persone intorno a noi erano già partite e papà ebbe il coraggio di farlo anche lui, per necessità. Perché quando c'è la necessità non c'è la paura, niente non fa più paura, non c'è più niente da perdere. Scelse l'Italia perché aveva contatti lì, agganci, sai, funziona così. Anche uno zio (un fratello di papà) era andato a vivere lì quindi era più facile per noi, almeno avevamo già un punto di riferimento là.
Io sono stato l'ultimo a sapere di questa decisione. Ero un bambino turbolento, ero la peste di casa e mia mamma temeva la mia reazione. Fino all'ultimo momento gli altri tennero il segreto. Quando finalmente seppi che saremmo partiti vivere in Italia mi sentii confuso, un po' triste e scombussolato. Ma alla fine il sentimento più forte fu la gioia, perché presi coscienza dell'opportunità meravigliosa di poter avere una vita migliore.
Non andavo più a scuola, non me ne fregava più niente.
Un giorno ci andai, feci capriole dappertutto, saltai in giro e dissi “andate a fanculo io me ne vado in Italia, mi libero di tutta sta merda”. Era come uno sfogo contro la violenza ingiusta, una rivincita sulla vita.
Mi ricordo bene del giorno della partenza.
Prendemmo l'aereo da Casablanca a Milano e poi il treno fino ad Alessandria, dove lo zio venne a prenderci. Mi ricordo dell'aereo particolarmente perché era la prima volta che lo prendevo ed era quello che mi portava dal mondo di prima, il mondo della miseria al mondo nuovo. Il sogno dell'Occidente. Il viaggio della certezza. “Andiamo a cercare la fortuna”.
Gli hostess mi trattarono bene, mi diedero addirittura dei giochi. Era una cosa nuova, mai vista prima, “mi regalano dei giochi mamma ti rendi conto?!”
La prima parola italiana che imparai fu “scusa”. Spingevo il carrello in aeroporto e passavo in mezzo alla gente, allora chiesi a mio padre come si diceva per chiedere scusa. Continuavo a ripetere “scusa scusa scusa”, invaso da una felicità enorme. Ero tutto agitato e provavo una sensazione di gioia infinita. La certezza di un futuro migliore. Un'opportunità. Un sorriso concesso. Una avventura. Una promessa. Un patto da rispettare. Una sfida da rilevare.
Mi ricordo anche bene della sera stessa quando arrivammo dallo zio e la zia. Chiesi il tè, inteso il tè alla menta, come si beve in Marocco. La zia mi disse che qui la menta non c'è; “ma come non c'è?! Impossibile”. Fu la prima cosa che mi scioccò. Non mi pareva vero, non avevo mai immaginato il tè diversamente da quello alle menta. Ma alla fine non ne feci una storia, lo accettai e passai ad altro.
La seconda cosa scioccante fu la mattina dopo quando mi svegliai. Guardai alla finestra e vidi la neve. L'avevo già vista una volta in Marocco ma erano solo fiocchini che cadevano dal cielo. Questa volta era neve vera, che si attaccava per terra, che rimaneva sulle macchine. C’era un metro di neve sulla Golf 1 di papà! E faceva freddo. Non ero abituato.
I primi tempi vivevamo in una casa brutta, una casa che faceva cagare. Ma per me questa casa è un bellissimo ricordo. Era il primo nido, era piena di affetto. Ed è da dove iniziò la mia nuova vita. Questa casa rappresentava la speranza e la semplicità della vita. Non importava che non funzionasse niente, importava solo l'opportunità che c'era dietro.
Il mio spirito di adattamento e la mia apertura di mentalità mi ha, per fortuna, permesso di integrarmi facilmente e di imparare la lingua italiana senza difficoltà. Feci subito amicizia con i miei compagni italiani. I marocchini erano pochi a scuola, mi sentivo in minoranza. I modi di fare erano diversi. Non ci si picchiava con le pietre per rispondere alle prese in giro.
Scoprii di essere permaloso, pauroso e di avere lacrime. Uscì fuori la mia debolezza, che non avevo potuto fare uscire in Marocco, semplicemente per sopravvivere tra gli altri.
Fu un grande insegnamento, una conoscenza di me stesso.
A casa si parlava solo arabo. I miei non hanno imparato l'italiano. Siamo una famiglia marocchina tradizionale, immigrata ma attaccata alla terra di origine. Non si dimentica da dove si viene. Per loro era sufficiente conoscere poche parole, si arrangiavano con i gesti e così comunicavano. Mamma era casalinga e si prendeva cura di noi. Papà lavorava duro. Costruiva strade, ponti, tunnel.
Ammiro tantissimo i miei genitori per il coraggio che hanno avuto, per quanto hanno lavorato. Mio padre lavora ancora e mia madre ha avuto la forza di crescerci in un paese completamente diverso dal suo.
Ogni sabato andavamo tutti e sei a fare la spesa al supermercato. La famiglia numerosa marocchina tipica che andava al supermercato, ti lascio immaginare... Era l'uscita settimanale per noi. Era un rito bellissimo. Saltavo come un pazzo nei reparti, toccavo e prendevo di tutto, cioccolatini e cagate varie. Il supermercato mi sembrava gigantesco, ero come in un parco divertimenti, provavo una gioia ingenua da bambino.
L'Italia mi ha cresciuto, mi ha accolto con calore e mi ha dato la libertà di vivere come lo intendo. Le sono eternamente riconoscente per l'opportunità che mi ha regalato, per i suoi valori che mi ha insegnato, per i quaderni e le penne colorate che mi ha dato la scuola, per la sua energia spontanea e autentica.
L'italia è la poesia che ho nel cuore.
Ora il periodo in Francia.
Ancora una volta mio padre mi anticipò. Venne lui a Montpellier per primo. A cinquant'anni ebbe di nuovo il coraggio di lasciare un paese per un altro, un'altra cultura, un'altra lingua. Sempre per lo stesso motivo, per darsi una vita migliore, perché non c'erano più opportunità in Italia.
E io lo raggiunsi.
Arrivai nel ottobre 2014. Durante la maratona. Non parlavo francese e non conoscevo niente della Francia. Avevo soltanto il ricordo di Sete perché era il porto di scalo tra l'Italia e il Marocco quando tornavamo in Marocco ogni tanto per le vacanze.
Mi diedi quindi una nuova opportunità di scoprire un'altra cultura, altre persone, di crescere e vivere nuove esperienze.
Paradossalmente l'integrazione fu un po' difficile all'inizio perché non avevo più leggerezza da bambino e le persone che conoscevo non erano quelle giuste per me. Ma per dimenticare la solitudine, superare le difficoltà e trovare la forza, correvo. Correvo tanto, come se la maratona che si svolgeva a Montpellier il giorno del mio arrivo fosse stata un messaggio, un consiglio da seguire. Infatti l’ho seguito, e mi ha aiutato molto.
Adesso sto lavorando come addetto alla consegna in bicicletta. Non farò questo lavoro tutta la vita, ma per il momento mi piace. Mi permette di fare sport lavorando, scoprire la città, meditare e pensare a tante cose mentre pedalo. Ho anche tanti amici e sto bene qui. Anche se l'Italia mi manca. Il caffè, l'odore del vero caffè... ma anche la pizza, la gente che parla forte al bar e ride, la leggerezza, l'atmosfera. Quello mi manca tantissimo.
Al futuro non ci penso, la stabilità non fa per me per ora. Voglio prima capire la mia leggenda personale e nel frattempo mi godo di ogni istante, sono presente ad ogni momento, vivendo traccio il mio percorso. Mi sveglio ogni mattina con l'idea di godermi la giornata, viverla pienamente, meravigliarmi di ogni cosa e fare una cosa bella per il prossimo, qualcosa di cui possa essere fiero e sentirmi umano prima di tutto.
In tutte le esperienze vissute ho assorbito soprattutto l'umanità di ogni cultura, la parte umana, la semplicità. Ho sviluppato un'intelligenza emotiva per connettermi alle persone, perché è quello che mi importa.
L'universo ci parla e ci risponde. Ci manda dei messaggi, bisogna sapere riceverli e avere fiducia nell'esistenza perché tutto ha un senso, tutto ha un perché ed è quello che mi ha insegnato la vita.