Un viaggio per un sogno

Un viaggio per un sogno

Lungo la strada che mi porta a casa della signora Giustina rifletto seriamente per la prima volta sulla sua storia. Già so qualcosa della sua vita, da riferimenti fatti da lei o da sua figlia: di sicuro è stata particolare, di sicuro ne ha vissute tante, di sicuro ha avuto coraggio. Per la prima volta però penso all’immensità di una cosa del genere, oltretutto fatta in tempi che quasi non riesco ad immaginare: l’immigrazione. Al giorno d’oggi questa parola fa quasi paura, l’atteggiamento degli italiani verso di essa è ambivalente: se sono gli «altri» a immigrare allora sono degli «immigrati», se siamo noi allora siamo dei «cervelli in fuga». Ai tempi della signora invece era qualcosa di comune, quasi inevitabile, un cambiamento a volte temuto e volte atteso ma quasi sempre forzato. So che la storia di Giustina non sarà così, so che la sua è stata una scelta e proprio per questo mi pare ancora più immensa.
Quando arrivo il primo ad accogliermi è Tobia, il gatto enorme di casa Pizza-Paciello. Quest’animale dalle dimensioni colossali ha l’aria quasi minacciosa, così la signora lo raccoglie e lo appoggia davanti a lei sul tavolo della cucina, appoggiando anche una torta grossa quasi come il gatto. Mentre si siede noto che quasi si nasconde dietro Tobia, la vedo imbarazzata e sembra che tutta questa storia dell’intervista la metta in soggezione, inizia a dirmi che le dispiace ma non sa se si ricorderà tutto, che cercherà di aiutarmi come può, ma di tempo ne è passato tanto. Cerco di tranquillizzarla con qualche scherzo, le dico che in realtà io sono venuta da lei per la torta, mica per il racconto. Lei allora ride e si tranquillizza, e inizia a raccontare.

Sono partita per Bedford nel 1959 e ho vissuto là fino al mio ritorno nel 1972. Ricordo bene il periodo della partenza perché era dicembre, quindi le feste erano vicine e le strade erano tutte decorate, sia in Italia che in Inghilterra. Ricordo bene di aver pensato «certo che tutto il mondo è paese» quando l’ho notato. 
Avevo ventidue anni quando me ne sono andata e prima vivevo in casa con mia mamma in un piccolo paesino della Puglia, Panni. Non posso dire che stessi male: mio papà era mancato quando io ero piccola, ma avevamo tanti parenti che ci aiutavano e nel 1959 entrambe le mie sorelle erano ormai sposate, quindi eravamo solo più noi due, la mamma ed io. Certo lei era un po’ severa, non le piaceva che uscissi e non voleva che lavorassi, però io avevo un sogno, quello di diventare infermiera, che non avrei certo potuto realizzare continuando a stare a Panni!
Così le ho detto che me ne sarei andata. Lei, soprattutto all’inizio, non era d’accordo, però non ha neanche mai cercato davvero di fermarmi. D’altronde non ero la prima a partire e sapeva che non sarei stata completamente tra sconosciuti: alcuni cugini vivevano e lavoravano a Bedford da parecchi anni, ma anche altra gente del paese che conoscevo fin da quando ero bambina.
Non è comunque stato facile, ero completamente sola e il viaggio è stato lungo, più lungo di qualsiasi viaggio avessi fatto fino ad allora. Sono andata in treno fino in Francia, a Calais, poi da lì ho preso la nave fino a Dover, di nuovo il treno verso Londra e poi fino a Bedford. Nonostante la fatica ero contenta e orgogliosa di avere fatto tutto da sola. 
Mia cugina abitava vicino alla stazione, quindi arrivata a Bedford sapevo dove andare, avevo gli indirizzi. Fortunatamente i miei cugini mi aspettavano e mi avevano aiutata a trovare un lavoro, che ho iniziato dopo due o tre giorni, altrimenti non sarei mai potuta andare in Inghilterra. Già solo per entrare nel paese dovevi avere in mano un contratto di lavoro, altrimenti alla dogana ti rimandavano indietro. Io ad esempio sapevo che all’inizio avrei lavorato in un ricovero, perché dovevo imparare il mestiere ma anche la lingua e la pronuncia, anche perché quando sono partita non sapevo per niente l’inglese.
Certo i colleghi e i superiori trovavano sempre il modo di farsi capire, anche con i gesti. Ad esempio una volta quando lavoravo ancora alla casa di riposo per anziani era arrivata la matron, cioè la capoinfermiera, a rimproverarmi perché non avevo messo la canottiera a una signora e aveva iniziato a farmi segno con il dito, così io avevo capito subito l’errore. Dopotutto era importante che imparassi prima a svolgere perfettamente il lavoro alla casa di riposo per poter poi fare quello di infermiera. La matron diceva sempre: «Prima di fare quello che dici tu devi imparare a fare quello che dico io».
Inoltre con me lavoravano anche altre due italiane che erano già lì da anni e mi hanno molto aiutata, perché i primi giorni non capivo «un tubo». Alla lunga però devo dire che non c’è niente che mi fosse sembrato particolarmente difficile, avevo imparato tutto facilmente e subito. Anche con la lingua ero riuscita a sbrogliarmela abbastanza in fretta, perché sia durante il lavoro sia nel mio tempo libero cercavo il più possibile di stare con gente del posto.
Quindi per i primi sei mesi ho lavorato in questo ricovero vivendo a casa di mia cugina. Lei e un’altra cugina più grande erano già sposate e vivevano a Bedford con i mariti da alcuni anni. La storia di mia cugina Maria è un po’ complicata: suo marito era stato catturato durante la guerra e portato in Inghilterra come prigioniero, dopo la guerra aveva deciso di rimanere là per lavorare, quindi era tornato in Italia per sposarsi e aveva portato anche mia cugina a Bedford. Il marito di un’altra cugina era invece andato in Inghilterra direttamente per lavoro e dopo un paio d’anni aveva portato anche lei. Loro vivono ancora là, come anche un altro cugino che abita in un paese lì vicino.

Dopo questi primi sei mesi al ricovero ho finalmente iniziato a lavorare all’ospedale di Bedford. Il mestiere mi piaceva moltissimo anche se il lavoro lì era duro, mica come qua! Pensa che addirittura una sera, dopo essere tornata da un turno in ospedale, mi sono addormentata nella vasca mentre mi facevo il bagno e per fortuna mi ha trovata un’altra infermiera, altrimenti avrei anche potuto annegare!

Io comunque lavoravo nel reparto maternità, dove c’erano le partorienti e i bambini. Da quando poi, nel 1968, l’aborto è stato legalizzato in Inghilterra, ogni lunedì facevamo da venticinque a trenta raschiamenti, dei bambini invece si occupavano solo delle assistant specializzate. 
Le altre figure professionali erano le staff, che corrispondono alle ausiliarie italiane, le infermiere e i dottori. Il personale era un po’ di tutte le nazionalità, ad esempio un dottore era greco, uno indiano, uno inglese, c’era anche una dottoressa indiana molto brava. A pensarci quando sono arrivata mi sembrava stranissimo, in Italia non c’erano mai dottoresse né dottori stranieri. Ancora più strano era che tutti rispettavano tutti e ci si aiutava moltissimo.
No ho mai subito un atto di discriminazione in tutti gli anni che ho vissuto e lavorato in Inghilterra, non posso dire niente di male degli inglesi. Io ho sempre avuto a che fare molto più con loro che con gli italiani, soprattutto in ospedale, dove l’ambiente era multirazziale. Lì c’erano italiani, inglesi, indiani, persone di colore, o come dicevano loro black people, e io non ho mai avuto problemi con nessuno, anzi avevamo un bel rapporto, quando c’erano le pause per i pasti mangiavamo sempre tutti insieme. Tutti erano ben accolti perché c’era molto bisogno di manodopera, in particolare negli ospedali.
D’altronde come ho detto senza lavoro non era possibile stare, ti rispedivano a casa appena sceso dalla nave se non avevi già un contratto, per questo chi era già in Inghilterra faceva da tramite, ma se non conoscevi nessuno difficilmente riuscivi ad entrare. Una volta ad esempio sono tornata in Italia, in vacanza, e al ritorno c’era sulla nave con me un ragazzo del paese che voleva venire a lavorare in Inghilterra ma non aveva né contatti né un contratto di lavoro, quindi arrivato alla dogana l’hanno preso per un braccio e rimandato indietro.
Comunque per me quello è stato un periodo davvero felice. Soprattutto da quando ho iniziato a lavorare in ospedale e a vivere nella residenza delle infermiere, dove sono stata per quattro anni. Ogni categoria aveva la propria: i medici, le infermiere e le ausiliarie. Era molto comodo perché era vicinissimo all’ospedale, mentre quando mi sono sposata, nel 1964, mi sono trasferita ed ero un po’ più lontana quindi dovevo prendere il bus per arrivare al lavoro.
Oltretutto io ero giovane e indipendente, quindi non facevo molta attenzione a rispettare le tradizioni. Ovviamente alcune abitudini si mantenevano, soprattutto quelle alimentari, ma molte altre cambiavano, come ad esempio il modo di vestirsi, molto più libero che in Italia. Per la messa la chiesa italiana c’era ma io la domenica lavoravo quindi non ci andavo. In compenso il sabato sera, quando la domenica non lavoravamo, io e le mie amiche andavamo a ballare, qualche volta anche a Londra! 
C’erano queste quattro ragazze italiane con cui stavo sempre insieme, dove andava una andava l’altra. Addirittura una sera le mie amiche ed io eravamo andate a Londra per vedere Rita Pavone e Gigliola Cinquetti ed eravamo tornate in ritardo alla residenza delle infermiere, quindi eravamo finite a rapporto dalla direttrice. Fino a mezzanotte infatti le porte erano aperte ma dopo le chiudevano a chiave, e a quel punto dipendeva un po’ da quelli che c’erano di guardia, se erano di buonumore ti facevano entrare senza troppe storie, altrimenti ti facevano rapporto, e noi quella volta eravamo state sfortunate. Un’altra volta, sempre a Londra, abbiamo visto la regina in occasione di una parata. Quelli sì che erano bei tempi!
Anche la città mi piaceva moltissimo, il clima inglese non mi ha mai infastidita, neanche la nebbia che c’era sempre. Era tutto molto ordinato e pulito e molto più verdeggiante della Puglia!
Certo era tutto diverso rispetto all’Italia. In particolare mi colpiva che loro fossero molto più dediti al lavoro. Anche il cibo ovviamente era molto differente e i tempi dedicati ai pasti erano molto più brevi di quelli italiani. La personalità della gente era diversa, la mentalità era molto più aperta e solare, anche se gli italiani pensano il contrario. Quando devono dire qualcosa gli inglesi lo dicono, ma senza cattiveria e sempre in modo educato. C’era molta giustizia, la paga era uguale per tutti, così come il trattamento. 
Non era certo tutto perfetto, come ho detto il lavoro era duro ed ero spesso stanca, soprattutto quando poi sono arrivati i bambini, e ricordo che trovavo ingiusto che non si potessero inviare in Italia più di cento sterline al mese, e che se volevi mandarne di più dovevi portarle con te quando tornavi in nave.
Altre cose poi mi parevano un pochino strane, come ad esempio il fatto che alla televisione inglese quando a mezzanotte finivano le trasmissioni tutti si alzavano e salutavano la regina, oppure la tradizione inglese di fare una festa quando i ragazzi e le ragazze compivano diciotto anni per dargli la chiave di casa.
Nonostante queste piccole stranezze io mi trovavo molto bene a Bedford. Non avevo neanche così tanta nostalgia di casa, un po’ perché comunicare con i parenti in Italia era abbastanza facile dato che mio cognato aveva già il telefono, un po’ perché in Inghilterra c’erano i miei cugini e una grande comunità di italiani. Dove abitavo io dopo sposata erano quasi tutti italiani. Ad esempio dove andavo a prendere il caffè, la pasta, l’olio il negozio era italiano, c’erano le scuole italiane e le associazioni. La comunità però non era ristretta, non si stava soltanto tra italiani, anche perché tutti dovevano lavorare molto e ci si vedeva soltanto a volte il weekend. 
Per tutti questi motivi io sarei rimasta in Inghilterra, per me tornare in Italia definitivamente dopo tredici anni è stato un po’ un trauma. A mio marito però non piaceva stare là, in particolare odiava il clima e il cibo, d’altronde nei negozi non si trovava tutto quello che c’era in Italia. Noi ci siamo conosciuti e sposati lì, nella chiesa italiana di Bedford, e i primi due figli sono nati in Inghilterra, poi lui ha viaggiato per alcuni anni lavorando stagionalmente come muratore in Svizzera, Inghilterra, Olanda e Belgio, però ha sempre desiderato tornare a casa, cosi alla fine siamo tornati tutti. 
    
Mi fa ancora un po’ star male parlarne, per me è stato davvero difficile, non sapevo neanche più contare i soldi italiani, mi sentivo abbastanza spaesata. Inoltre io avevo un bambino piccolo e in Inghilterra c’erano già gli omogeneizzati mentre qui non c’erano ancora, mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo. A una delle mie cugine poi era dispiaciuto molto che me ne fossi andata perché ero un po’ la sua interprete. Lei sapeva pochissimo d’inglese perché quando sono partiti non sapeva né leggere né scrivere e quindi aveva fatto molta fatica a imparare. Ancora adesso ci sentiamo e mi invita ad andarla a trovare. Oltre a lei ho continuato a sentire l’altra cugina ma con tutti gli altri negli anni ho perso i contatti.
A peggiorare il ritorno poi è stato il fatto che dopo un anno passato al Sud ci siamo trasferiti in Piemonte, dove quasi quasi mi sentivo più straniera che in Inghilterra. 
Però si sa la vita è fatta di compromessi e alla fine la mia vita qui non è stata certo brutta, ho continuato a lavorare e ho la mia famiglia, che poi è quello che conta.
Alla fine questa signora che diceva di non ricordare quasi nulla di cose me ne ha raccontate tante, anche se so che non è stato facile. Ora sembra molto più sicura di sé, felice e orgogliosa della sua storia e di averla raccontata. Sto per andarmene così faccio a Giustina un’ultima domanda, le chiedo se oggi sceglierebbe di ripartire.

So che molti, anche tra i miei compaesani, sono stati obbligati a partire, chi per raggiungere i mariti, chi per poter lavorare, ma per me non è stato così. Avrei potuto tranquillamente continuare a vivere in casa con mia mamma, poi sposarmi e non lavorare mai un giorno. Molte ragazze a quei tempi lo facevano, era normale. Ma io volevo una vita diversa, volevo vedere posti diversi ed essere indipendente. Andarmene è stata una scelta che rifarei.

Giulia Abis, 2016

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