Immigrazione Italo Franco Marocchina
Mi chiamo Loubna e frequento l’ultimo anno di Licence LEA à Montpellier, tra le tante materie che propone il mio corso c’è anche Civilisation Italienne il cui soggetto è l’immigrazione italiana. La mia professoressa ha deciso di strutturare il programma in modo particolare, oltre a spiegarci tutta la storia della migrazione italiana, ha chiesto a ogni studente di intervistare una persona che ha emigrato. La prima persona a cui ho pensato in quel esatto momento è stata mio padre. Le ragioni sono state molteplici, ero curiosa di sapere la sua vera storia, perché sì in generale sapevo com’erano andate le cose, ma volevo sapere cose più precise e più intime. Inoltre mio padre non è una persona che parla molto di se, quindi è stata una sfida per me. Ho scelto mio padre perché ha lasciato il suo paese natale per un’Italia al tempo florida per poi cambiarla per una Francia che non ha abbandonato i suoi cittadini e che gli ha dato una seconda possibilità. Ho scelto lui perché ha vissuto in un’Italia razzista che purtroppo non è mai davvero cambiata. Ho scelto mio padre perché è la realtà di molti padri che hanno combattuto per regalare un futuro migliore ai propri figli e alle proprie famiglie. Ho scelto mio padre perché è il viso della migrazione.
Dopo aver deciso che sarebbe stato lui il mio intervistato, non mi mancava che trovare il coraggio per chiederglielo. Come ho già detto non è una persona che parla molto di se, infatti non mi ricordo di aver mai espresso i miei sentimenti con lui, come per esempio il semplice dirgli ti voglio bene, e lui nemmeno. Non sto dicendo che sia un padre severo, anzi, ma che non è un padre sentimentale. Dopo qualche settimana avevo deciso che glielo avrei chiesto e che dovevo solo aspettare il momento giusto. Una domenica pomeriggio mi chiama in videochiamata, come fa ogni domenica, per assicurarsi che stia bene e se avessi bisogno di qualcosa, mentre chiacchieravamo, e aver ben appurato che fosse di buon umore, decisi che dovevo chiederglielo. A mia grande sorpresa accettò subito, anzi era super contento di raccontarmelo tant’è che andò a cercare la sua prima carta d’identità italiana e le sue vecchie foto da giovane. Quindi passammo un buon quarto d’ora a parlare, ovviamente poi passai i giorni seguenti a richiamarlo per chiedergli altri dettagli che mi erano sfuggiti o che si era dimenticato di dirmi. Soprattutto una domanda che mi è stata posta in classe ovvero come mai avesse accettato di raccontare la sua storia così apertamente e soprattutto raccontando le cose meno belle, ad esempio il fatto che lavorasse in nero o che dormiva in macchina, la sua risposta è stata semplice “perché non dovrei farlo? Non mi vergogno, non ho mai rubato o picchiato qualcuno, non c’è motivo per vergognarmi della mia storia. Tutto quello che ho guadagnato l’ho fatto con la fatica e il sudore. Il mio posto in Italia e in Francia me lo sono guadagnato lealmente.”. La domanda è stata posta soprattutto perché molte persone che hanno fatto il suo percorso, magari anche più difficile, si rifiutano di parlarne come se ci fosse qualcosa di male o semplicemente perché stanno male e non se la sentono. Ma sono stata contenta della sua risposta e del fatto che ne va fiero del suo percorso e della sua storia.
Il viaggio
La storia di un giovane ragazzo di quartiere che sognava l’Europa
Mio padre è nato a Casablanca in 10 Novembre del 1962. È cresciuto in una famiglia numerosa molto povera in un quartiere popolare e degradato di Casablanca. Ha lasciato la scuola quando era ancora alle elementari per lavorare e aiutare la sua famiglia, che è composta da suo padre, sua madre, 5 sorelle e due fratelli. Non era il fratello maggiore, ma essendo maschio doveva aiutare suo padre a mantenere le sorelle e la madre. All’età di 10 anni circa lavorava in un forno come aiutante, in Marocco al tempo (e tutt’ora in alcune realtà meno moderne) esistevano cantine adibite a forni a legna dove le signore portavano il pane, preparato in casa, a cuocere. Dopo qualche anno e qualche lavoretto come aiutante qua e là, che non mi ha voluto specificare perché erano quasi tutti lavori manuali come muratore o meccanico, ha iniziato a lavorare in uno studio fotografico dove faceva le fotografie. Da lì è nata una passione per la fotografia che si è sempre portato dietro, anche se mettendola da parte. Ricordo che da piccola mi faceva sempre vedere le foto che scattava dei paesaggi che visitava quando andava in trasferta per lavoro o semplicemente come si impegnava per farmi una semplice foto. Nonostante ciò, i soldi non erano abbastanza per mantenere la sua famiglia e d’essere d’aiuto, soprattutto per, come mi ha detto lui, “toglierli dal degrado di quel quartiere dimenticato dal comune”, inizia a pensare all’estero. Al tempo in Marocco le mete più ambite per emigrare erano la Spagna e la Francia, ma molti iniziavano a parlare di un’Italia. Di un’Italia che era meglio della Spagna e della Francia, un’Italia dove i soldi erano facili, un’Italia dove chi andava tornava ricco e lasciava a bocca aperta tutto il quartiere. Di questa famosa Italia furono dei suoi amici a parlargliene, che erano già stati lì e che lavoravano bene. Decide quindi di voler lasciare il suo quartiere e partire per questa metà sconosciuta. Era il 1988, dopo mille pratiche per aver il passaporto decide di partire con uno piccolo zaino. Parte con un paio di amici, prendono l’aereo dall’aeroporto di Casablanca e atterranno a Tunisi. Ovviamente per lui era tutto nuovo, per un ragazzo di 26 che non aveva mai lasciato il suo quartiere (nemmeno tutta Casablanca aveva visitato) prendere un aereo è stata un’esperienza a dir poco unica. Non si ricorda molto del momento a Tunisi, ma mi ha raccontato che si sono recati al porto e hanno preso una nave che partiva per Trapani. La nave ovviamente era una nave normale, come quelle da crociera, perché al tempo non c’erano leggi contro gli immigrati quindi a lui è bastato il passaporto marocchino per entrare tranquillamente in Italia. Arrivati a Trapani hanno preso un treno fino a Messina, per poi prendere il traghetto fino a Reggio Calabria, la loro metà finale. Perché Reggio Calabria? Gli amici che gli avevano suggerito di andare in Italia abitavano proprio lì. Ha abito a Reggio Calabria per 2 anni, dove ha lavorato in nero nei campi di arance e la sera faceva il venditore ambulante vendendo giocattoli per bambini. Durante l’intervista mi disse che faceva il “vucumpra” che è una parola storpiata e dispregiativa inventata dagli italiani per identificare i venditori ambulanti. Storpiata perché per una persona straniera era difficile pronunciare in modo corretto vuoi comprare e quindi il suono era più o meno quello. Nella sua ingenuità si è auto definito “vucumpra”, forse senza capire davvero la cattiveria e la superficialità che c’è dietro a quella parola , anzi me l’ha detta quasi ridendo, perché forse in fondo sa che è offensiva ma ormai si è arreso. Non ho voluto approfondire perché non volevo toccare argomenti delicati e privati, perché capisco che al tempo per lui non è stato facile e non lo è mai stato.
Tornando a Reggio Calabria mi disse che viveva in un bel l’appartamento insieme ad altri marocchini e che non avevano trovato difficoltà a trovare l’alloggio. Non fece corsi di lingua italiana, semplicemente perché lui voleva lavorare e aiutare la sua famiglia e non voleva “perdere tempo”, imparò l’italiano lavorando. Aveva solo amici marocchini e tunisini perché era difficile fare amicizia con gli italiani, sia per la lingua sia per il fatto che quest’ultimi non erano propensi a fare amicizia. Era difficile interagire con loro quindi stava sempre con la sua piccola comunità di nord africani.
Nel 1990 arrivò la svolta, ovvero la legge Martello con la quale l’Italia iniziava a chiedere il visto per coloro che volevano entrare e il permesso di soggiorno per coloro che volevano restare. La legge uscì a febbraio e mio padre ottenne il permesso di soggiorno a Marzo. Ora che era tutelato e che poteva stare in Italia tranquillamente senza problemi decide di tornare in Marocco a trovare la sua famiglia. Il viaggio è stato infinito, andò in macchina da Reggio Calabria passando per tutta l’Italia, la Francia e la Spagna per infine arrivare in Marocco. Mi disse che quando arrivò nel suo quartiere con la macchina targata Italia la gente impazziva, urlava, cantava, fischiava e gli correva dietro. Era come se qualcuno in quel quartiere ce l’avesse fatta. Oltre a lui molti iniziavano ad andare in macchina, la macchina per il Marocco del tempo era l’estrema ricchezza, voleva dire che stavi non bene di più. Questa cosa può essere banale per chi legge, ma in questi quartieri e nei villaggi nacque con il tempo una vera e propria ossessione per l’Italia. I ragazzini vedendo le persone emigrare per poi tornare con macchine e vestiti pensavano che l’Italia fosse il paese delle meraviglie, il paese dai soldi facili. Volevano e vogliono tutt’ora lasciare i loro quartieri per un ipotetico futuro migliore senza sapere i sacrifici e le disgrazie che ci sono dietro. È una realtà purtroppo che mi è sempre stata raccontata, molti ragazzi perdono la vita cercando di raggiungere l’Italia. E tutto per avere la ricchezza che molti ostentano in Marocco, ma che poi appena tornati in Italia tornano al lavoro e alla fatica per raccogliere i soldi da ostentare in Marocco. Può sembrare un discorso senza senso, ma è così soprattutto per qualcuno che questa realtà l’ha vista con i proprio occhi. Mio padre per fortuna non è mai stato così, anzi quando tornava in Marocco aiutava la sua famiglia e i suoi vicini, viveva come se non avesse mai lasciato il quartiere.
Tornando al suo rientro in Marocco incontra due amici, anch’essi emigrati in Italia, che vivevano al nord a Parma. Gli dissero di salire al nord, che c’era più lavoro c’erano più industrie e che assumevano facilmente. Decise quindi di tornare al più presto in Italia per lasciare Reggio Calabria e trasferirsi in quella Parma che sembrava la città perfetta. Appena arrivato si ritrovò davanti a una realtà completamente diversa. Trovò lavoro subito, grazie agli uffici di collocamento, nell’edilizia con tanto di contratto indeterminato, ma trovare un alloggio non fu altrettanto facile. Con il suo contratto indeterminato, ovvero la sua garanzia, bussò in tutte le case in affitto e nelle agenzie immobiliari ma la risposta era sempre e solo una “Non affittiamo a stranieri e terroni”. Si ritrovò quindi in una realtà completamente diversa, mentre al sud non ha mai avuto veri e propri episodi di razzismo al nord iniziò a capire cos’era il razzismo. Dormì in macchina per diversi mesi mi disse, finché non trovò insieme ai suoi amici delle case chiamate da lui “baracche di linea” ovvero delle case piccole di legno, non proprio conformi alle regole di abitazione. L’affitto era sulle 700 000 lire, circa 350€, al mese. La realtà al nord era completamente diversa dal sud, le persone erano più fredde e mi ha detto che con un semplice sguardo o smorfia capivi che la persona di fronte non ti sopportava. Tranne il suo capo, che era molto gentile e disponibile, addirittura lo invitava a cena a casa sua con la sua famiglia.
Nel 1994 si sposa e tornando in Italia decise di chiedere aiuto al suo capo per trovare una vera casa. Grazie al suo datore di lavoro che gli fece da garante affittò un appartamento in provincia di Parma. Nel 1997 sono nata io e nel 1999 mio fratello, nello stesso anno decise di diventare artigiano e di lavorare in proprio. Quindi si licenziò, ma licenziandosi perse anche il diritto alla casa. Per fortuna negli anni mia madre, che aveva seguito i corsi di italiano e diversi corsi di formazione, si era creata una rete di contatti e riuscirono ad affittare un bell’appartamento in un altro paesino in provincia di Parma.
Nel 2008 inizia la crisi in Italia, una crisi che colpì soprattutto il settore edilizio quindi decise di tornare un dipendente e lavorare per la stessa azienda che l’aveva preso al suo arrivo a Parma. Nel 2009 prese la cittadinanza italiana, mi ha detto che la parte più bella dell’averla è stata fare il giuramento davanti al sindaco e di poter finalmente votare. L’Italia riuscì a uscire dalla crisi, ma l’edilizia rimase comunque molto in difficoltà. Tant’è che alla fine 2011 e inizio 2012 partiva spesso per paesi come Germania e Francia alla ricerca di un’eventuale possibilità. Nel 2012 i miei genitori si sono separati, quindi per forza di cose mio padre lasciò la casa e visse per un periodo a Reggio Emilia con un suo amico. In quel periodo viaggiava sempre finché un suo amico non gli propose di raggiungerlo in Francia, a Cholet. Qui lavoro come raccoglitore di polli in regola solo per un mese, il tempo per poter fare tutte le pratiche necessarie per poter vivere tranquillamente in Francia, quali l’assicurazione sanitaria, l’apertura del conto corrente francese, ecc. Dopo un mese come raccoglitore di polli torna a fare il lavoro che ama, il muratore. Lavorò a Cholet solo per altri due mesi per poi trasferirsi in una piccola città francese al confine svizzero, nel 2014. Qui ottiene un CDI subito in una ditta di edilizia. Non aveva ancora una casa, quindi dormiva sempre da un suo amico, ma la ricerca di un alloggio non fu difficile. 10 giorni dopo trovò un appartamento in cui vive tutt’ora. Il suo racconto termina qui sul suo viaggio, come si può notare non ha trovato difficoltà di nessun genere in Francia in parte perché è un cittadino europeo e in parte, come mi ha detto lui, i francesi sono meno prevenuti degli italiani. Non mi sono fermata qui, gli ho chiesto le differenze tra l’Italia e la Francia e se ha mai vissuto episodi di razzismo.
Conclusione :
Non mi ha raccontato di aver subito dei veri e propri episodi di razzismo, ma tanti piccoli dettagli che ti fanno capire che la persona di fronte a te è razzista. Un esempio che mi ha raccontato, e che io mi ricordo molto bene anche io, è che in Italia nessuno lo chiamava con il suo nome marocchino ma Salvatore. Certo, non vuol dire essere razzisti, ma vuol dire che la persona di fronte e a te non fa nessuno sforzo per pronunciare il tuo nome. Anche questa cosa mi è stata raccontata ridendo da lui, non so se perché ci desse poco peso o semplicemente perché ormai ci aveva rinunciato. In Francia invece l’hanno sempre chiamato con il suo vero nome, mi ha detto che all’inizio facevano un po’ di fatica per pronunciarlo bene ma comunque lo sforzo c’era e alla fine nessuno ha mai cercato un nome francese per chiamarlo. Sono piccolezze che toccano una persona. Come il fatto
che a volte veniva chiamato “marocchino” come se fosse un’etichetta, ora si può pensare che non c’è niente di male in quanto è realmente marocchino, ma purtroppo la parola marocchino veniva usata come una specie di insulto aveva preso una connotazione dispregiativa. Mentre in Francia non è mai stato etichettato come Italiano o Marocchino. Altri esempi generali che mi ha citato è che in Italia quando sei straniero molti ti parlano con sufficienza, mi ha raccontato che a volte al bar il barista rispondeva in modo scocciato quando chiedeva un caffè come ad esempio “Cosa vuoi?” “Cosa c’è?”, ovviamente ho cercato di capire se il barista era così con tutti o semplicemente con lui e mi ha detto che rispondeva così solo a lui mentre i clienti italiani li trattava bene. L’episodio di razzismo più grande è stato sicuramente quello già citato all’inizio quando appena arrivato a Parma si è visto chiudere tutte le porte delle case in affitto solo perché straniero. In generale mi ha detto che purtroppo la maggior parte degli italiani che ha conosciuto, quindi quelli che ha conosciuto lui non tutti gli italiani, erano razzisti e delle volte gli è stato detto apertamente in faccia “Alcuni mi dicevano ‘sono razzista’ in faccia”, il peggio erano quelli che gli dicevano di essere razzisti ma di non avercela con lui perché lui era “un immigrato bravo che lavorava”. Sono frasi pesanti che mi hanno toccata e che non pensavo avesse sentito. Mi ha anche raccontato che la maggior parte degli italiani che ha conosciuto non rispettavano la sua religione in quanto è musulmano, soprattutto per quanto riguarda non mangiare carne di maiale e per il periodo di Ramadan, che è un mese sacro nella religione musulmana in cui ogni fedele deve digiunare dal sorgere del sole al suo tramontare e in questo lasso di tempo non si può né bere né mangiare. Queste sono cose che anche io personalmente ho vissuto. Mi ha fatto l’esempio che gli dicevano sempre “dai mangiati un po’ di prosciutto, non sai cosa ti perdi è buonissimo. Ma non capisci niente”, senza parlare del periodo del Ramadan in cui gli dedicano sempre “Ma mangia, ma cosa fai! Ma che religione è! Tieni bevi di nascosto. Ma neanche l’acqua?”. Insomma mi ha confessato che queste cose lo toccavano molto in quanto non veniva rispettato il suo credo e che non provavano nemmeno a chiedere come mai ad esempio non poteva mangiare carne di maiale. Non c’era conversazione, per le persone che ha conosciuto esisteva solo il loro pensiero e tutti gli altri erano sbagliato. Quindi gli ho chiesto se queste cose gli hanno fatto detestare l’Italia, mi ha risposto “l’Italia è un bel paese, mi ha dato molto e non lo negherò mai, ma i suoi cittadini meno.”. La domanda è sorta spontanea visto che ha vissuto in due paesi così vicini ma così diversi, ovvero come si trova in Francia e come sono i francesi, se avesse mai vissuto episodi di razzismo. Mi ha detto che in Francia si trova molto bene, che è un paese che non si è dimenticato dei suoi cittadini, a differenza dell’Italia, e che permette di vivere in modo dignitoso. Il lavoro l’ha trovato subito, senza dover essere raccomandato da nessuno e l’alloggio pure. Ha abitato in due case diverse in Francia e tutte e due le ha affittate facilmente senza problemi legati alla sul nome o i suoi tratti somatici. E per quanto riguarda il razzismo? Mi ha detto che fino ad oggi non ha mai subito nessun episodio di razzismo, nessuno gli ha mai risposto con sufficienza e soprattutto nessuno gli ha detto apertamente di essere razzista o che lui è un bravo immigrato. È importante dire che non conosce il francese, la poca lingua che conosce l’ha imparata al lavoro e quindi non sa ancora esprimersi perfettamente e questo non l’ha mai fatto subire episodi di razzismo. Anzi mi ha detto che i francesi che ha conosciuto sono sempre stati gentili e disponibili ad aiutarlo. Infine gli ho chiesto cosa ha mantenuto della cultura italiana, ovviamente la risposta è stata “il cibo”. Mangia ancora italiano in casa, prepara sempre la pasta che è un suo piatto italiano preferito. Torna spesso in Italia, per motivi burocratici e mi ha confessato che torna sempre con una valigia piena di cibo tra cui il Parmigiano reggiano. Mentre mi elencava gli alimenti che si portava con se in Francia ho notato nei suoi occhi una felicità insolita, mio padre è sempre stato molto molto legato alle sue tradizioni marocchine e alla cultura marocchina, ma sentirlo parlare del cibo italiano, come ad esempio il Panettone alimento che si consuma nel periodo di Natale, mi ha fatto capito che sì, ha cercato in tutti i modi di rimanere fedele alla sua cultura, ma che la cultura italiana gli è entrata dentro senza rendersene conto. Mi ha confessato che per colpa degli sguardi e delle parole degli altri, non si è mai sentito italiano, ma che ora che è in Francia si rende sempre più conto di non essere solo marocchino ma anche italiano.
Questa intervista mi ha fatto capire come la migrazione cambi una persona, come anche se non si vogliono abbandonare le proprie tradizioni la cultura del paese in cui vivi ti entra dentro e non ti lascerà mai, come non è facile lasciare La proprio famiglia e il proprio paese per una nazione nuova dove non si conosce la lingua e le leggi. Ma mi ha fatto anche capire che la forza di volontà e la lealtà ripagano sempre, che se non si lotta per quello che si vuole nessuno ce lo regalerà. Mi ha fatto scoprire un lato di mio padre che non conoscevo, dei ricordi che non mi aveva mai raccontato e della fatica che ha fatto per dare a me e a mio fratello un futuro migliore. Mi ha sempre detto “io lavoro e tu devi studiare, non voglio che lasci la scuola come ho fatto io.”. Non voglio definirla intervista, perché per me è stato come chiacchierare, non ho voluto prepararmi troppe domande macchinose ho preferito che fosse lui a parlare apertamente della sua storia. Quindi grazie a questa intervista ho scoperto un lato di mio padre più sensibile, un lato che è stato ferito e che ha sempre voluto coprire con una corazza di insensibilità. Ho anche scoperto che nonostante lui ci abbia sempre insegnato le tradizioni marocchine, si è fatto travolgere da me e mio fratello dalla cultura italiana.
Ognuno ha una storia da raccontare che sia piccola o grande, che sia piena di difficoltà o che sia facile, lasciare il proprio paese non è mai facile e la maggior parte delle volte non è una scelta. Bisogna guardare al prossimo con ammirazione, molti non avrebbero il coraggio di lasciare tutto, la stabilità e la tranquillità, per un nuovo posto. Bisogna provare solo ammirazione. Per concludere vorrei citare una frase che mi ha detto durante la nostra “chiacchierata” e che mi ha toccata particolarmente: “quando diventi un migrante nessun paese diventa il tuo paese, sei straniero in qualsiasi posto perfino nel tuo paese d’origine. Per il Marocco ora sono un’italiano, per gli italiani sarò sempre un marocchino e per i francesi sono un’italiano.”