Un viaggio attraverso i ricordi

Un viaggio attraverso i ricordi

A mia nonna, vera autrice di questa storia.

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PREFAZIONE

Un mero progetto scolastico o una possibilità di riscoperta dei ricordi? È ciò che  mi sono chiesta durante un pomeriggio nevoso passato nel mio piccolo paesino ai piedi delle montagne piemontesi. Ed è proprio qui che il nostro viaggio attraverso i ricordi ha inizio. Ma andiamo con ordine.

Il progetto scolastico assegnatoci comporta la redazione un dossier su un immigrato italiano al fine di scoprire le tappe dell’emigrazione italiana che, negli anni, è stata cospicua.

Per scoprire le radici che mi legano al Paese che attualmente mi ospita, la Francia, ho deciso di raccontare la storia della mia bisnonna Delfina che, insieme al marito e successivamente ai figli, ha raggiunto la Francia, in particolare la regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra, con la speranza di trovare lavoro. Ma come trovare informazioni su un viaggio avvenuto così tanti anni fa? L’unico modo per riscoprire avvenimenti così lontani nel tempo al giorno d’oggi è quello di chiacchierare con le nonne. Le nonne sono l’ultimo baluardo di un passato troppo spesso dimenticato che, attraverso racconti e aneddoti, è in grado di far rivivere persone e avventure che altrimenti verrebbero dimenticate da una società che non ha più il tempo di soffermarsi su queste cose.

Per questo motivo ho chiesto aiuto a mio padre, così da organizzare un pomeriggio con mia nonna paterna, il tutto davanti ad una tazza di tè caldo e con i miei muffin ai mirtilli che tanto le piacciono. È lei l’enciclopedia di famiglia, l’unica in grado di ricordare l’intero albero genealogico della famiglia Ughetto e gli annessi racconti passati.

Mio padre invece ha svolto il ruolo di mediatore, così da aiutare a ridurre al minimo le digressioni che, si sa, negli anziani sono sempre molto frequenti, e a mettere il tutto nel giusto ordine cronologico. È stato quest’ultimo elemento l’ostacolo più duro da superare quel pomeriggio perché i ricordi con gli anni diventano confusi, sfalsati, la successione temporale viene meno in favore di sentimenti ed emozioni che invece rimangono sempre presenti, e che rappresentano forse i veri padroni della nostra memoria. Questa intervista si è dimostrata una fantastica opportunità per riscoprire la storia della mia bisnonna Delfina che ancora non conoscevo, o almeno non in maniera così dettagliata, e tracciare le tappe di un’avventura, se così la vogliamo definire, che mostra un’altra faccia della famiglia Ughetto ancora confusa e sconosciuta per le nuove generazioni.

L’intervista si è svolta senza intoppi e, alla fine del pomeriggio, mia nonna mi ha ringraziata molto per averla ascoltata e per aver deciso di dare voce ad una persona a lei così cara. Questo perché la mia bisnonna, all’epoca, era analfabeta e mia nonna non ha mai avuto la possibilità negli anni di imprimere nero su bianco quest’avventura, anche a causa della scarsa istruzione che caratterizzava la vita dei giovani nella prima metà del secolo.

Le pagine che seguiranno sono una narrazione incentrata su mia bisnonna Delfina, protagonista di questo viaggio attraverso i ricordi, che la vedrà ripercorrere le tappe di un viaggio di anni addietro alla ricerca di lavoro e di stabilità per la propria famiglia. A fine racconto allegherò inoltre alcune immagini di documenti che siamo riusciti a recuperare nei vecchi bauli nella soffitta della nostra casa in campagna, così da riuscire a rendere ancora più vividi i ricordi e fare un vero e proprio tuffo nel passato.

Benvenuti nella famiglia Ughetto e buona lettura.

 

IL TESTIMONE

Ughetto Budin Delfina. Nata il 28 Settembre 1879 a Giaveno. Sposata e con 3 figli.
Residente a Giaveno ed in seguito trasferitasi in Francia a Travaillan.

Ecco la carta d’identità del mio testimone. Ma, come sappiamo, dietro i numeri ed i caratteri stampati si cela tutto ciò che vi è dietro quel nome. Il nostro racconto ci porterà in Francia ripercorrendo la storia di una mamma che decide di partire per aiutare la sua famiglia. Nonostante le difficoltà, nonostante la lontananza.

Ma chi era Delfina?

Innanzitutto era una contadina come molti a Giaveno, che con pochi animali e qualche risorsa si dedicava alla pastorizia: accompagnava le capre in montagna al pascolo durante i mesi caldi e si occupava dell’osteria di famiglia, sita nella mia attuale casa, in inverno. È a metà degli anni Venti che Delfina decide di partire per seguire suo marito che, già anni prima, era andato in Francia per ricoprire mansioni, perlopiù stagionali, come taglialegna o carbonaio. Prende questa decisione perché i figli sono sufficientemente grandi per poter rimanere da soli o con i nonni per aiutarli con gli animali. Inoltre in seguito alla fine della Prima guerra mondiale, la cosiddetta Grande Guerra, i soldi per ricostruire una vita non bastavano mai e i lavoretti per arrotondare erano l’unico modo per andare avanti.

Nel corso degli anni Venti, la Francia era la principale destinazione degli italiani. Da una parte, il paese transalpino rappresentava una buona meta per quanti fuggivano dalla repressione fascista; dall’altra, la Francia era in piena ricostruzione e offriva dunque in quegli anni grandi possibilità d’impiego, che spinsero molti a percorrere le strade dell’emigrazione attraverso le Alpi occidentali. Il fattore principale era la vicinanza del confine e il fatto che la Francia offriva possibilità lavorative e le abilità manuali dei montanari piemontesi erano richieste ed apprezzate.

I primi lavori in Francia erano stagionali, principalmente per raccogliere la lavanda e il fieno in estate nella rinomata regione della Provenza. Erano ospitati da alcuni compaesani che si erano trasferiti in pianta stabile a Travaillan, paesino nel dipartimento della Vaucluse.

I primi tempi furono difficili, caratterizzati solo dal duro lavoro. Trattandosi solo di lavori stagionali, alla fine dell’estate entrambi tornavano indietro dando vita ad un continuo viaggiare che cominciò a metà degli anni Venti e continuò per almeno un decennio. Uno dei motivi di rientro fu un incidente sul lavoro: durante la raccolta della lavanda, un ramo di un albero le ferì un occhio che la fece diventare, poco tempo dopo, cieca dall’occhio ferito. È solamente nei primi anni Trenta, insieme questa volta ai figli, che Delfina decide di stabilirsi in Francia insieme al marito per poter dare un futuro migliore ai due figli maschi. La figlia maggiore, invece, rimase sempre a casa con i nonni per aiutarli ed occuparsi della casa oltre a concentrarsi nel maritarsi.

Perché gli anni Trenta? A causa del fascismo e della tensione che serpeggiava nel nostro Paese decisero di partire per mettersi al sicuro da un pericolo, percepito come un’ombra minacciosa, che stava crescendo.

Ma proprio a causa del Fascismo e della sua politica, la mia bisnonna fu costretta a rientrare alla fine degli anni Trenta. Una legge del ‘39 aveva istituito la «Commissione Permanente per il Rimpatrio degli italiani all’estero” per agevolare il rientro degli emigranti e spesso denunciando irregolarità nei documenti. Quest’ultimo fu il caso di Delfina, che si vide costretta a rientrare a causa di “documenti non conformi”. Uno tra i principali motivi di questa legge e di questo cambiamento di rotta era la politica sempre più marcatamente antifrancese che portava avanti l’Italia e in cui il discorso di Ciano nel 1938 sull’irredentismo italiano chiedeva indietro “Tunisi, Corsica, Nizza, Savoia!”.

Delfina tornò comunque in Francia alle fine della guerra con i figli. Entrambi trovarono sistemazione in Francia e, quando la sua presenza diventò superflua a causa dell’età, decise di tornare in Italia per concludere la propria vita nel paese che le aveva dato i natali.

 

IL VIAGGIO

Come raggiungere un paese straniero con i pochi mezzi dell’epoca? Il viaggio per giungere ai paesini d’oltralpe, almeno per chi viveva a Giaveno e nei dintorni, era relativamente breve. O meglio: il confine era raggiungibile abbastanza facilmente a piedi. È proprio per questa ragione che la Francia era considerata una meta preferibile alle Americhe o ad altri paesi europei che, a causa della grande distanza, comportavano costi di viaggio ben superiori, impossibilida sostenere per la mia famiglia. Per arrivare al confine francese si passava per la Val di Susa per poi scendere a Modane (paesino della Savoia) o Briançon oppure procedere attraverso la Val Chisone. Questa prima parte del viaggio avveniva a piedi, ma contrariamente a quanto si possa pensare, la solitudine non faceva da padrona in quanto il viaggio avveniva spesso in compagnia grazie ai gruppi di compaesani che decidevano di partire insieme e raggiungere i paesi di francesi dove vi era già una colonia di Giavenesi o qualche parente lontano proveniente da altre zone.

Una volta superato il confine ed arrivati a Modane o a Briançon, il viaggio si effettuava principalmente in treno o, se i soldi scarseggiavano, tramite mezzi di fortuna. Soprattutto i primi viaggi, in cui Delfina non aveva ancora i documenti per l’espatrio, avvenivano perlopiù grazie all’aiuto di qualche conoscente o qualche passaggio trovato lungo la strada.

Come detto in precedenza, la meta preferita nel periodo estivo era la Provenza grazie alle numerose possibilità di trovare impieghi nei campi di lavanda o per raccogliere il fieno nelle grandi campagne della regione. Nelle stagioni invernali, invece, si preferiva le zone montuose dove, ad esempio, il mio bisnonno poteva rendersi utile lavorando come carbonaio o taglialegna nei boschi.

Col passare del tempo, e grazie alla maggiore conoscenza del nuovo Paese, fu sempre più facile trovare passaggi o addirittura acquistare un biglietto del treno per l’intera famiglia.

 

L’ESPERIENZA

Che cosa comporta partire negli anni Venti da un paesino italiano di montagna come tanti altri per raggiungere una nuova meta? Una meta che, seppur non lontana come le Americhe, implicava comunque il difficile compito di lasciare la sicurezza della propria dimora in favore di un luogo sconosciuto, con poche certezze e grandi interrogativi. Come sarà la Francia? Troverò lavoro? Riuscirò a farmi capire? E il vecchio amico di mio padre che è già laggiù, chissà se riuscirà ad aiutarmi… Cume a sara la Fransa? Truverai d’travaï? Rusirai a feme capi?E u veï amis d’me pari ch’ale lagiü a rusira a giuteme?

Così avrebbe detto Delfina a metà degli Anni Venti, alla viglia della partenza del viaggio. La lingua italiana apparteneva ancora solamente all’élite sociale mentre il dialetto era il modo più semplice per conversare e per farsi capire all’interno di paesini di montagna ancora troppo lontani da una grande città come Torino in cui, grazie al lavoro, si stava affermando sempre più un italiano standard. Delfina infatti, come la maggior parte dei suoi coetanei, era analfabeta perché non aveva avuto la possibilità di andare a scuola. Nel momento in cui avrebbe dovuto iscriversi alla scuola elementare, suo fratello maggiore morì a causa di una brutta caduta nel fiume Sangone che scorre a fianco del fienile. Per questo motivo Delfina dovette abbandonare l’idea degli studi per dedicarsi con anima e corpo ad aiutare la sua famiglia nei campi e nei pascoli e, in seguito, nell’osteria. In Francia continuò a parlare dialetto con suo marito, con gli amici ed in seguito con i figli. Imparò anche un po’ di francese, anche se non riuscì mai a parlarlo in modo fluido. Furono solamente i suoi figli in seguito, e i nipoti dopo di loro, a calarsi completamente nel panorama linguistico e culturale francese.

Quando arrivò in Francia, prima a Travaillan e poi a Camaret, con una valigia piena di speranze e voglia di fare; aveva con sé solo poche foto, quella dei genitori e quella del suo matrimonio e il cosiddetto “abito buono” per le feste in paese e una collana d’oro che le aveva donato sua nonna prima di morire.

Le comunicazioni con la famiglia in Italia, invece, divennero via via più difficili. Entrambe le famiglie all’inizio non possedevano un telefono. Le lettere, a causa dell’analfabetismo, erano rare. Solo in seguito, grazie ai figli, divennero più numerose, soprattutto in occasioni speciali come matrimoni di amici o prime comunioni. Spesso si ricevevano anche cartoline, in particolare da mia nonna, che mandava spesso le foto di Giaveno per mostrare come il tanto caro paesino di origine si stesse evolvendo ed ingrandendo col passare degli anni.

Quando Delfina tornò dopo molti anni non riconobbe neanche più il paese d’origine, così diverso rispetto ai suoi ricordi d’infanzia, così distante dal luogo in cui era cresciuta. Solo l’imponente campanile, segno distintivo del paese della Val Sangone, dominava ancora la piazza centrale. Mia nonna ricorda molto bene quel momento, così come io ricordo molto bene l’ombra di commozione attraversarle il viso durante il racconto. Si sentì molto triste vedendo la mamma, una donna temprata da una vita di battaglie e di difficoltà, commuoversi di fronte alla piazza centrale del proprio paesino.

In quel momento, racconta la nonna, era il sentimento di rimpianto che animava il cuore di Delfina. In pochi secondi, fu assalita dai ricordi: vide scorrere tutte le pagine della propria vita, gli episodi che l’hanno animata, gli incontri, le difficoltà, gli amici persi e quelli ritrovati. Si commosse ripensando alla propria esistenza passata lontana dal proprio amato paese, a quanto le era mancato senza che se ne fosse realmente accorta, a quanto era cambiato senza che lei fosse lì, a viverlo. Si commosse perché, dopo anni di difficoltà e di viaggi, era finalmente a casa.

 

E vissero tutti felici e contenti.

 

THE END.

Eleonora Ughetto Piampaschetto, 2018

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